Il diritto al futuro
di chi è senza il presente

Dalle soavi melodie dei canti sui balconi allo stridulo fischio dei sassi contro la sede della Regione a Milano, dagli striscioni con “andrà tutto bene”, agli slogan acidi e disperati contro il governo dei lockdown. Se ce ne fosse stato bisogno, le proteste esasperate e a tratti violente che, partite da Napoli si vanno estendendo in gran parte d’Italia, ci fanno capire che la seconda ondata del Covid non sarà come la prima.

Allora, complice la novità della situazione pur tragica e l’attesa per un’estate migliore, gli italiani avevano accettato con ferma e serena rassegnazione le limitazioni alla loro libertà personale, i rischi legati a un calo del tenore di vita, la stessa convivenza con il male che li assediava. Adesso no. Ai primi provvedimenti seri, emessi da Regione e governo sono partite le proteste più o meno spontanee. Perché certo, dietro chi scende in piazza c’è sempre qualcuno che persegue fini diversi da quelli palesati, o altri, per cui la sola idea di fare un po’ baraonda è, un detonatore più che sufficiente. Poi c’è la questione degli stadi chiusi al pubblico. Emiliano Mondonico teorizzava che la violenza delle curve servisse a preservare le piazze. Il disagio però esiste. Molte categorie già in difficoltà vedono il rischio di un pugno da ko. Rispetto all’altra volta, ci sono stati tutti gli interventi eseguiti per mettere a norma imprese, cinema, teatri, negozi, ristoranti, bar e impianti sportivi. A volte anche molto onerosi. E ora vanificati dai nuovi provvedimenti, oltretutto percepiti come un antipasto di un secondo lockdown generalizzato che, per restare negli anglicismi, sarebbe un “the end” per l’economia. Ragioni alla base delle proteste che, al netto delle strumentalizzazioni, la politica deve prendere sul serio. Ed evitare, se possibile, di andare a solleticare le pance che non ne hanno certo bisogno per un bieco calcolo elettorale quantomai effimero perché questa volta se arriverà la tempesta si abbatterà su tutti. Se si devono difendere gli interessi delle categorie colpite che, in un’economia circolare sono molte di più di quelle interessate direttamente dalle misure limitative, bisogna farlo nelle sedi istituzionali, con fermezza. E, dalla parte dell’opposizione con un controllo occhiuto e costante sul mantenimento delle promesse in termini di aiuti da erogare nelle giuste proporzioni per compensare le perdite e non in maniera da favorire i soliti dritti che non mancano mai in queste situazioni.

Altro, se si vuole restare nel campo della responsabilità non si può fare. Anzi sì. Magari cominciare a pensare, come diceva De Gasperi, che il politico guarda a un’elezione, lo statista a una generazione. Meglio mettere la testa su ciò che attende i giovani che si affacciano oggi in una realtà lavorativa che, se era incerta prima di questa apocalisse, ora rischia di diventare devastante. Davvero ci sono generazioni in gioco che, devono in qualche modo potersi guadagnare un posto tra le priorità legate all’emergenza sanitaria e a quella economica. Purtroppo di latte in quest’estate illusoria in cui si pensava che l’incubo fosse passato, se n’è versato a ettolitri. Le formiche del lockdown primaverile hanno lasciato il campo alle cicale del “liberi tutti”, di una ripresa scolastica programmata troppo tardi, di un trasporto pubblico locale senza interventi, neppure nell’ambito della programmazione, di briglie mollate su viaggi che sarebbe stato più opportuno non fare, di una sanità che, a tutti i livelli non è stata organizzata in maniera efficace per l’eventuale ritorno del nemico. Però, alla fine, è stato così anche negli altri paesi europei, quelli che di solito, si presentano al cospetto dell’Italia con ditini alzati e sghignazzi.

Va bene, adesso però è anche il momento della lungimiranza. Ai ragazzi di oggi stiamo, giocoforza, mutilando il presente in una fase della vita che di solito regala gioia, serenità , libertà e spensieratezza. Come minimo gli dobbiamo un futuro.

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