«Cantù, io lo so bene: a Rieti ti aspetterà un clima infernale»

Antonello Riva è il grande doppio ex della sfida di domenica. «La città vive di basket. Lì ho giocato con mio figlio e dato l’addio al campo»

«avevo firmato un contratto per due stagioni, mi sono fermato sei anni e, non fossero subentrati problemi societari, probabilmente sarei rimasto anche oltre». Rieti, prossima avversaria conosciuta di Cantù (domenica alle 15), è una delle tappe della carriera di Antonello Riva. Esperienza, per inciso, importantissima anche a livello personale, e per mille e uno motivi.

Bomber, lei che conosce molto bene il posto, ci dice cosa deve aspettarsi Cantù?

Una città che respira pallacanestro e vive di basket. Pur nel rispetto di bacheche, che non si possono confrontare, un po’ quello che accade a Cantù.

Si spieghi meglio.

A Rieti c’è un’atmosfera incredibile, entusiasmo e non uno che non sappia o non s’informi sulla situazione della squadra. Il basket non ha rivali, a livello di sport e interessi. Posso tranquillamente dire che si tratta di uno di quei luoghi che vive solo ed esclusivamente per la pallacanestro».

Che aria tirerà al PalaSojourner?

Caldissima. Può anche trasformarsi in un inferno. Lì anche in duemila possono creare una bolgia incredibile, figuriamoci se sarà tutto esaurito.

Giusta dimensione l’A2 per Rieti?

Direi proprio di sì. Aggiungendo che per una piazza simile un’A2 di alto livello non stonerebbe affatto. Per tentare il salto ci vorrebbero investimenti importanti, che il territorio potrebbe anche essere in grado di supportare, ma che, per quella che è la risposta del mondo imprenditoriale, non si vede del tutto. Dunque, meglio non avventurarsi troppo, correndo il rischio di scottarsi. Fu forse l’errore di Gaetano Papalia, quando mandò il motore fuori giri.

E poi c’è quell’eterna rivalità tra due società...

Un antagonismo che fa bene e male. Tiene alto l’interesse, ma a volte non permette di avere una squadra unica competitiva. Non si sa mai come possa andare a finire, quando si prova con le fusioni. Prendete il caso di Livorno: messe insieme le due squadre il risultato è stato quello di far saltare il banco.

La Rieti che fu, con lei diciottenne all’inizio di carriera, ebbe anche momenti importanti.

E Cantù lo sa bene. Ma erano i tempi di Brunamonti, Zampolini, Sanesi e Sojourner. Vedete voi...

Che parte del suo cuore ha Rieti?

Molto importante, anni bellissimi e vissuti insieme alla famiglia. E il culmine del passaggio da atleta a dirigente. Riconosco grandi meriti a Papalia, che ebbe l’intuizione di darmi questa possibilità.

Ma Rieti, ce lo dica finalmente, per lei ha un sapore molto romantico e intimo.

Eccoci

Quindi?

Quindi accettai di scendere in serie B giusto quando ci fu la concreta possibilità - agevolata dal nuovo regolamento - di giocare con mio figlio Ivan.

L’incontro di due generazioni, un po’ ciò che accadde qualche anno prima a Dino e Andrea Meneghin, con la differenza che loro si affrontarono da avversari.

Appunto. Il bello è stato questo.

Ancor più bello il risultato sportivo.

L’aver conquistato la promozione in A, riportando in alto dopo anni una realtà storica, fu un risultato clamoroso. Non dimenticherò mai quegli istanti, vissuti al fianco di Ivan e abbracciando Ivan a fine partita.

Ricordi nitidi, dunque?

Non vincemmo il primo anno, ma la promozione arrivò nel secondo e io, già con qualche problema di troppo a livello fisico, mi ricordo molto bene la finale con Trapani e la grande festa del giugno 2004, quando una squadra, una società e una città coronarono il grande sogno: la promozione in A2.

Promozione che, però, coincise anche con il suo addio al basket, poco dopo.

Vero. Un’A2 che fu solo di qualche partita, per me. Troppa fatica e tanto dolore, decisi, in corsa, di smettere. Lo feci con la morte nel cuore, per tutto quello che avevo dato e ricevuto in tanti anni di pallacanestro, ma convinto anche dalla proposta di Gaetano Papalia, che mi volle al suo fianco per la prosecuzione del progetto della Sebastiani. Una nuova avventura, la possibilità di imparare e vivere qualcosa di diverso, rimanendo nell’ambiente. Anni intensi, vissuti con grande passione e che mi insegnarono tanto.

Anche l’inizio di quella parentesi fu indimenticabile...

Con Ivan andammo la prima volta a Rieti. Sedici agosto 2002. Nei patti con Tonino Zorzi, l’allenatore, avrei potuto anche prendermela con un po’ più di calma: “Sarai il leader, la chioccia della squadra – mi disse -. Finisci pure le vacanze in tranquillità, e poi vieni, quando vuoi”. L’avevo preso in parola, tanto che avevamo pianificato l’estate con famiglia e amici.

Fin qui tutto bene.

Quando meno te l’aspetti, la telefonata. Sempre lui, il coach: “Antonello, non ha idea di che attesa ci sia qui, ti aspettano tutti ed è rinato l’amore per la pallacanestro. Sei il capitano, come fa a non esserci alla presentazione?”. Mi aveva fregato, insomma. “Dai, Ivan, partiamo prestissimo domattina”, dissi. Nel pezzo da Terni a Rieti mi chiesi, e chiesi a mio figlio, tante volte: “Ma chi vuoi che ci sia, a Ferragosto, ad aspettarci”. “Chi vuoi che ci sia?”. Nel piazzale del palazzetto sembrava d’essere prima della partita più importante della stagione. Settecento, forse ottocento persone… Una cosa che non mi era mai capitata. Incredibile, ecco cos’è Rieti.

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