I grandi ex, Cattini: «Io c’ero nell’età dell’oro»

Inteviste Parla l’undicesimo giocatore nella storia del club quanto al maggior numero di stagioni (dieci) in campo

Undicesimo nella storia del club quanto al maggior numero di stagioni (dieci) in campo contrassegnate Pallacanestro Cantù, addirittura secondo assoluto per quantità di trofei conquistati (undici) con quella maglia addosso. Insomma, non v’è dubbio - del resto, carta canta - che Giorgio Cattini eserciti una certa qual suggestione quando il termine basket si coniuga con quello di Brianza. Una fascinazione ancor più accentuata se correlata a questi tempi di vacche magre per la versione sportiva della società canturina.

Quella sfilza di trofei nella sua personale bacheca arricchisce ancor più il suo orgoglio?

Sono contento di poter dire di aver fatto parte della Cantù dell’età dell’oro. E questo mi basta. Il sciur Aldo (Allievi, ndr) l’avevo avvertito quando mi stava per vendere. “Via io, corre il rischio di non vincere più” gli dissi, ma lui preferì incassare la quota relativa alla mia cessione. E così rinunciò a qualche altro titolo...

Quali i trionfi che più sente suoi?

Durante il mio primo periodo canturino davo sostanzialmente un contributo in allenamento per migliorare Marzorati una volta in campo. È invece con la seconda tranche in Brianza, con coach Bianchini, che mi sono sentito molto più protagonista. E quindi rispondo il secondo scudetto e le due Coppe Campioni.

Riduttivo definirla solo il cambio di Marzorati o magari di Riva?

Un celebre giornalista del tempo mi definì il miglior sesto uomo del campionato e perorò la mia causa per la convocazione in Nazionale. Il ct Gamba preferì portare i suoi, ma questo è un altro discorso. Comunque io, il Pierlo e l’Antonello siamo stati in campo anche insieme quando si andava con il quintetto con i tre piccoli. E poi...

E poi?

Marzorati è stato il più forte di sempre nel suo ruolo e Riva il migliore nel suo. Anche essere stato “soltanto” l’ombra di tali mostri sacri non mi sembra cosa da poco.

Lontano da Cantù avrebbe certo avuto più spazio.

Ma ho sempre preferito far parte di una squadra vincente perché era questo che mi dava soddisfazione anche a dispetto di maggior visibilità e ingaggi più sostanziosi altrove.

Ricordi, a beneficio soprattutto dei più giovani, le sue principali caratteristiche da giocatore.

Ero un elemento di disturbo e di rottura. Un rompiscatole, insomma. Per le squadre rivali, naturalmente... So che gli allenatori avversari temevano la mia imprevedibilità. Detto ciò, difendevo davvero.

Ma qualche punto lo segnava pure.

Io ragionavo così: sono in una squadra che ha già tanti punti nelle mani per cui non è necessario che anch’io pensi a far canestro. Ma quando c’era la necessità perché magari mancava qualcuno dei titolari, ecco propormi anche con bottini interessanti.

C’è un giocatore attuale nel quale si rivede?

Forse Alessandro Pajola della Virtus Bologna perché lui ha molte delle mie caratteristiche.

Il suo canestro più importante?

Quello che credo sia rimasto più impresso nella memoria dei nostri tifosi l’ho realizzato nella “bella” della semifinale scudetto 1981 al palazzone di San Siro contro Milano perché consentì di andarci a giocare il secondo supplementare grazie al quale poi battemmo ed eliminammo il Billy.

Ci segua: ora le indichiamo il nome di qualche suo compagno famoso al quale lei prova ad associare una definizione. Ok?

Ci sto.

Ciccio Della Fiori?

Marpione.

Antonello Riva?

Esplosivo, oltre che - ovviamente - bomber.

Pierluigi Marzorati?

Metodico e inquadrato.

Renzo Bariviera?

Killer.

C.J. Kupec?

Mitragliatore, ma pure grintoso.

Tom Boswell?

Cavallo pazzo, ma un fenomeno.

Bruce Flowers?

Il più migliorato nei suoi anni canturini con un vero e proprio cambio di marcia.

Franco Meneghel?

Ordinato e pulito.

Harthorne Wingo?

Un signore in tutti i sensi.

Bob Lienhard?

Il canturino americano o l’americano canturino.

L’avversario che più l’ha impressionato?

Larry Wright del Banco di Roma. Fortissimo. Quando toccava marcarlo mi veniva il mal di testa. E poi Mike D’Antoni al quale però ogni tanto riuscivo a porre un freno.

La Cantù di quegli anni formidabili e la Cantù di adesso.

Allora l’intera città gravitava attorno alla pallacanestro, ora è molto più dispersiva. Eppure, a quei tempi - anche se perdevamo di rado - la piazza era molto più critica di quanto non lo sia ora.

A proposito, qual è il suo giudizio sull’attuale squadra canturina?

All’inizio della stagione non mi era dispiaciuta. Poi qualcosa evidentemente si deve essere rotto negli equilibri all’interno del gruppo, anche perché quelli che dovrebbero essere rinforzi andrebbero presi per rivelarsi utili al contesto al quale aderiscono e non solo perché potenzialmente forti. Insomma, si dovrebbe badare più alla sostanza che al nome. Ora mancano serenità e tranquillità. E fatica a comprendere l’atteggiamento di alcuni giocatori. Da tifoso posso solo sperare che ne vengano fuori.

Altro da aggiungere?

Sì, che la priorità e l’aspetto fondamentale è la nuova arena. Quello è ciò che conta davvero. La promozione in A non deve rappresentare un assillo.

Cambiamo discorso: è molto apprezzato il suo riconosciuto senso dell’umorismo.

Lo devo alle mie origini emiliane. Nel senso che siamo molto più scanzonati rispetto ai brianzoli. In tal senso, i miei primi anni a Cantù furono una tragedia. Oltre al buon umore, mi mancava l’ospitalità tipica della mia terra.

A proposito, lei è reggiano di Novellara, lo stesso centro che ha dato i natali ad Augusto Daolio, uno dei fondatori del complesso musicali I Nomadi. Al suo paese chi dei due è più celebre?

Senza dubbio lui, anche perché io ho lasciato Novellara per Cantù all’età di 16 anni e dunque di me si ricorda giusto qualche appassionato di basket e soltanto dai 60 in su...

© RIPRODUZIONE RISERVATA