«Io e Cantù, le nozze e una fuga nei campi. Che bello rivederla in A»

Intervista Parla Valerio Bianchini, l’allenatore del terzo scudetto e della prima Coppa dei Campioni, segnando inequivocabilmente la storia di Cantù

Cantù

Da Taurisano a oggi. Dalle sfide contro Milano, al ricordo della famiglia Allievi. Da Valerio Bianchini a Nicola Brienza, il “Vate” per eccellenza della pallacanestro italiana ha parlato a “La Provincia” a 360 gradi.

È stato l’allenatore del terzo scudetto e della prima Coppa dei Campioni, segnando inequivocabilmente la storia di Cantù nel suo triennio in panchina. Compirà 82 anni il 22 luglio e – autentici villani - gli abbiamo rubato un po’ di tempo, proprio durante le sue vacanze in Sardegna.

Come sempre lucido, schietto e mai banale. Con un ricordo speciale per il suo maestro Taurisano, di cui fu assistente a Cantù, e per la famiglia Allievi. Due collaborazioni che gli hanno cambiato la vita.

Coach Bianchini, ha visto cos’ha fatto Charlie Recalcati? Ha raccolto gli scritti di Arnaldo Taurisano e ne ha fatto un libro, “Basketball Game Evolution. La difesa di Taurisano: manuale di strategia vincente”. È una grande testimonianza, non crede?

Posso dire di aver visto quel materiale molti anni fa. Andai a trovarlo trovato nella sua casa sul lago di Garda, mi portò nel suo studio e vidi questi documenti e ne rimasi colpito.

Che personaggio era Taurisano?

Ebbe il grande merito di continuare a scrivere, anche dopo essersi ritirato. È l’unico allenatore che abbia lasciato un’eredità letteraria sul mondo del basket.

Scrisse molti libri, se ne trovano ancora alcuni come “Il minibasket” del 1973, “Il Mangiabasket” del 1972 e “Basket boom story” del 1971.

C’è anche “Pallacanestro”, ricchissimo di teoria, pratica, e di didattica, scrissi la quarta di copertina. Lui era straordinario nel trasformare in gioco gli esercizi per i ragazzi e i giocatori. Li sapeva rendere molto fruibili e sapeva creare delle competizioni che alzavano i livello dell’allenamento.

In definitiva?

Era un uomo e un allenatore straordinario, superiore a moltissimi santoni americani. Non ha avuto rivali in Italia: mi ricordo che io vidi quei documenti e vi posso dire che ne rimasi impressionato.

E quella difesa al centro del libro curato da Recalcati? Nelle conclusioni, Taurisano sostiene che senza certi giocatori, quella difesa non sarebbe stata possibile…

Eh vabbè, quello è il mantra di noi allenatori… Posso solo dire che lui ha precorso i tempi. Per anni in tanti hanno celebrato Tex Winter, assistente di Phil Jackson ai Lakers, e prima “santone” dei college con il suo celebre attacco a triangolo dei Bulls. Ma va detto che Taurisano vent’anni prima aveva già fatto la stessa cosa a Cantù, con Recalcati, Marzorati, Farina, Lienhard e Della Fiori…

In cosa consisteva la grandezza di quella squadra?

Era un basket meraviglioso, senza blocchi e basato sui fondamentali e sulla lettura della difesa. C’erano interpreti straordinari, su tutti il grande “Pierlo”.

Ma i metodi e le tattiche di Taurisano sarebbero ancora attuali?

Il suo libro è sulla difesa, ma io ricordo soprattutto un coach grandioso nell’aspetto offensivo, sebbene instancabile nel ricercare cose nuove da mettere in entrambi i lati del campo. Purtroppo, oggi ci sono differenze enormi, si gioca una pallacanestro omologata, tutti fanno le stesse cose. Senza tiro da tre, allora si sviluppavano difese come la “push and rotate” descritta nel libro, molto complessa e oggi improponibile. Oggi dominano il tiro da tre e la transizione: si vedono situazioni, non schemi, quasi tutte basate sull’uno contro uno. È un gioco deteriorato.

E di Cantù che ci dice?

L’ho vista a Roma l’anno scorso, quando fu organizzato un bel ricordo delle sfide Cantù-Roma. I tifosi furono molto simpatici e affettuosi con me.

Solo questo?

No, ovviamente. Cantù ce l’ho nel cuore, passai in Brianza tre anni meravigliosi. Fu un’esperienza umana travolgente, benedetta da parecchie vittorie: la Coppa delle Coppe contro il Barcellona a Roma, lo scudetto contro la Virtus, il successo in Coppa Campioni contro il Maccabi che fu il vero coronamento del lavoro che si stava facendo.

Come arrivò a Cantù?

Io venivo da un’esperienza a Roma in B, dove coltivavo ragazzini. Mi sono ritrovato in Brianza, dove sono passato ad allenar fior di campioni: Bariviera, Marzorati e tutti gli altri… Mi hanno trasmesso grande entusiasmo e mi hanno dato tanto.

Cosa ha messo di suo?

Ho cercato di modernizzare, ma da loro ho avuto tanto. Loro hanno fatto di me l’allenatore del terzo scudetto, loro mi hanno fatto diventare un allenatore internazionale.

I primi ricordi di quell’epoca straordinaria?

Aldo Allievi e la sua famiglia. Era una persona di grande senso pratico e grandi intuizioni. Si era inventato il college che produceva giocatori per la prima squadra. A Roma, con Giancarlo Lazzari, vissi un’esperienza simile. Si respirava grande unità sotto la guida del “sciur Aldo”, con un esecutivo di prim’ordine con Raffaele Morbelli. In squadra, nella stanza dei bottoni, c’era Marzorati, capitano e imparentato con gli Allievi.

Vada pure a ruota libera con gli aneddoti…

Ricordo la signora Mariuccia, la moglie di Aldo. Avevo una fidanzata romana, un’attrice, che veniva spesso a Cantù da Milano quando lavorava in zona. La Mariuccia mi consigliò di sposarla. Alla fine, ha avuto ragione lei: mi sono sposato nel 1980. Al matrimonio a Roma, c’erano anche i coniugi Allievi.

Ricorda anche l’attuale presidente, Roberto?

Come scordarlo? Lui porta avanti la tradizione e anche lui, allora, era nella stanza dei bottoni. Quando ho rinnovai il contratto, dopo la vittoria della Coppa delle Coppe e dello scudetto, andai baldanzoso a rinegoziare. Mi trovai di fronte Aldo Allievi, che smorzò subito il mio entusiasmo. Mi disse in dialetto: “Non crederà mica di farmi pagare ancora tre americani”. Effettivamente quell’anno cambiammo Todd con Boswell a libro paga c’erano tre Usa… Poi vidi Roberto e l’atmosfera si stemperò.

È felice per il ritorno in serie A?

Certo che sì. È un ritorno importante per il panorama cestistico italiano. Cantù è uno dei santuari del basket italiano. Il fatto che fosse scivolata e permanesse in A2 non andava bene. Non fraintendete: la A2 è un ottimo campionato, ma non ha visibilità. Il basket, in generale, non ha visibilità. A Roma dove non c’è basket in A, nessuno parla più da anni di pallacanestro. Rendiamo merito ai quotidiani locali come “La Provincia”: salvaguardano l’informazione sul basket.

Torneranno le grandi sfide e i grandi derby…

Ve ne racconto io una bella. Nella semifinale scudetto con Milano, vincemmo la prima in trasferta. Eravamo sicuri, al Pianella, di vincere e di andare in finale: allora si giocava al meglio delle tre partite. Ma Mike D’Antoni ci distrusse, in più entrammo in campo troppo molli e troppo sicuri di vincere. Perdemmo e io scappai tra i campi per evitare i tifosi. Ma poi rivincemmo a Milano e andammo in finale, battendo Bologna.

In conclusione?

Sono felice che Cantù sia riemersa. In A porta la sua storia, la sua tradizione e, a breve, anche un nuovo palazzetto. Io però rimango affezionato al Pianella, al vecchio “hangar”: lì sono successe cose incredibili.

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