«Io, il re delle presenze in A. Segreti? Una buona birra»

Gay ha giocato a Cantù per nove stagioni e detiene il record assoluto (843) di gettoni nella massima serie

Risale a quasi 18 anni fa l’ultima sua partita sotto le insegne della Pallacanestro Cantù: era infatti il 14 maggio 2006 quando Dan Gay giocò 4’ nella sconfitta della Vertical Vision a Biella per 77-71. L’ultima di 241 (riferite esclusivamente al campionato e distribuite nell’arco di 9 stagioni): 107 nel suo primo triennio (1985-88) e 134 nel successivo (2000-2006).

Stava per compiere 45 anni (è di luglio), ma avrebbe tenuto duro per altri due, con 6 apparizioni la stagione seguente alla Fortitudo Bologna e un paio quella ancora dopo a Pesaro. Nel momento di congedarsi dai campi si lasciava alle spalle 843 gettoni di presenza che lo rendevano - anzi lo rendono tuttora perché il primato resta imbattuto - il recordman assoluto della serie A, davanti a Dino Meneghin (834).

E ora che fa, caro Dan?

Continuo a giocare, naturalmente. Nella Nazionale italiana over 60. A fine giugno avremo gli Europei a Pesaro e ci teniamo perché siamo i campioni in carica. Mi avvio ormai alle 63 primavere, ma mi diverto ancora un sacco, anche se l’età anagrafica mi renderebbe in verità prossimo alla pensione.

Che effetto fa realizzare - a un americano sbarcato in Italia a 23 anni - che nessuno più di lei ha collezionato presenze in A?

È un onore, ed è pure particolare per uno come il sottoscritto solo “mezzo” italiano, ma devo riconoscere di essere stato baciato dal Signore.

In che senso?

Che in tutta la carriera non sono mai incorso in infortuni seri. Al massimo ho saltato qualche partita e avendo giocato sino a quasi 47 anni è stata veramente una fortuna. E forse c’è un segreto, tra gli altri.

Quale?

La birra. Ne ho sempre bevuta, di quella buona, e potrei scrivere una guida alla scelta delle migliori birrerie italiane.

Infortuni seri no, ma il naso quante volte se l’è fratturato?

Quattro, mi sembra. Ma in quel caso mettevo la maschera a protezione e giocavo. In effetti ero soprannominato l’uomo mascherato. Però ora...

Che c’è?

Poco prima della pandemia, a Praga, ho sostituito la valvola aortica. Sin da bimbo avevo il soffio al cuore e negli ultimi 15 anni ero andato incontro a qualche svenimento. Così ho deciso per l’intervento risolutivo. E ora sono come nuovo.

A fine Anni 80, per matrimonio, ha acquisito la cittadinanza italiana. Quanto ha ancora di americano e quanto di italiano?

Ho vissuto la mia vita da adulto più qui che là, anche perché non mi riconosco più nel modello Usa. Superficialmente può apparire tutto ”wow”, ma basta grattare un pochino per rendersi conto che è peggio del terzo mondo. Chi ha i soldi se la cava, gli altri sono condannati a un sistema di vita che li strozza. È il Paese più ipocrita del mondo.

Quanto all’Italia, invece?

Mi trovo a mio agio. Per il modo vivere e di vedere le cose. E poi per il cibo, il buonsenso, l’umanità. Un sacco di cose che in America se le sognano.

La sua prima esperienza da noi a Rieti nel 1984: avrebbe mai potuto pensare a quel tempo che l’Italia sarebbe diventato il suo Paese?

L’ho compreso quasi subito quando ho iniziato a conoscere gli italiani. Coach Nico Messina non sapeva una sola parola d’inglese se non “basketball” e non poter comunicare per uno come me che parlerebbe anche con i sassi era penalizzante. Così prendevo lezione di lingua e iniziavo a farmi capire. Intanto, mi stavo innamorando del modo di vivere.

L’anno dopo era a Cantù.

Prima di soffermarci sull’esperienza cestistica, una premessa: devo tantissimo alla famiglia Frigerio che mi ha accolto come un figlio.

Firmò un contratto da miseria.

Verissimo. Pochi soldi garantiti, i restanti avrei potuto guadagnarmeli in base al rendimento: punti, recuperi, rimbalzi garantivano un tot. Dovevo restare sano, altrimenti non incassavo... Mi allenavo come un matto per rimanere sempre in forma. E poi ringraziare coach Recalcati che mi teneva in campo il più a lungo possibile.

Quando si dice l’etica del lavoro...

Sono nato in una famiglia povera, eravamo sette figli, papà e mamma svolgevano entrambi due lavori per garantirci la sussistenza e la sopravvivenza. E anche noi ragazzini ci si dava da fare. No, davvero, far fatica non mi è mai pesato.

Accennava a Recalcati.

Persona sincera e trasparente, come poche altre. E poi, da ex grande giocatore, intuiva e capiva un sacco di cose di campo.

Tre anni, tre semifinali scudetto.

Mancava sempre un qualcosina per fare la differenza. Ma il nostro budget era inferiore rispetto a quello dalle avversarie che affrontavamo lungo la strada verso lo scudetto. Abbiamo reso più di quanto si potesse sperare.

Nel frattempo, lei era diventato il “vetraio”.

Espressione coniata perché “pulivo” i tabelloni, nel senso che pigliavo un sacco di rimbalzi (Gay è anche il miglior rimbalzista assoluto nella storia della serie A, ndr).

Lo scudetto l’avrebbe poi vinto con la Fortitudo nel 1998.

Grazie a Recalcati, che ne era l’allenatore, perché lui mi ha fatto rinascere a Bologna.

Vero che a Bologna girava su un Ciao rosso?

Avevo l’auto, ma non si trovava mai posteggio... Così ho comprato a poco prezzo quel vecchio motorino arrugginito. Del resto, dovevo solo andare e tornare dall’allenamento. Ma Vincenzino Esposito e Corradino Fumagalli mi prendono in giro ancora adesso...

Nel 2000 il ritorno in Brianza. Ed era già “anziano”...

Il posto giusto, al momento giusto, con tantissimi stranieri ai quali facevo da chioccia. I neri erano diffidenti, abituati a essere guardati con sospetto in America. Qui, dicevo loro, potete stare tranquilli senza avere paura di alcuno e fidarvi di chi vi sta attorno perché non siete visti e considerati come neri, bensì come persone.

Vinceste una Supercoppa.

A Treviso contro la Benetton ci davano tutti per spacciati e invece... È stato bellissimo.

L’allenatore era Sacripanti.

Persona corretta e onesta. E super sotto il profilo umano.

Di lei il coach ha detto: “lui è la piacevolezza del gioco, l’amore puro per il basket fatto persona”.

Sì, sono proprio così. Per me la pallacanestro è passione oltre che mero divertimento pur rappresentando un lavoro.

Pino l’avrebbe ritrovato a Pesaro. Vero che gli ha chiesto di farla entrare in campo contro Rieti?

Certo, con Rieti era iniziato tutto e contro Rieti avrei chiuso la carriera. Essendo uno di cuore, Pino me l’ha concesso senza pensarci due volte.

Vero che lei è stato espulso solo una volta in tutta la carriera?

Sì, è accaduto quando giocavo a Treviso, rispondendo a una reiterata provocazione di Meneghin. Gli ho tirato un pugno, ma in realtà ho colpito in pieno un arbitro. In realtà, sono stato un giocatore sì duro, ma sempre molto corretto e pulito.

Sempre a Treviso lei contro Pistoia realizzò 44 punti, il suo massimo in carriera.

Mica me ne resi conto, ma Pistoia sì poiché la stagione seguente mi comprò...

Eagles e Pianella, Fossa e PalaDozza: ha frequentato il top...

Come quei due posti lì non ce ne sono altri. Mi ritengo molto fortunato di aver fatto parte di squadre che si sono permesse ambienti e tifoserie simili.

Vive a Bologna, segue l’A2?

Non vedo una partita ormai da tanti anni, da quando il tiro da tre è diventato dominante e i pivot, quando si rintracciano, sono ormai solo marginali. Quanto a Fortitudo e Cantù mi suona strano rinvenirle nel secondo campionato quando invece frequentavano le coppe europee e lottavano per lo scudetto. Ma i tempi cambiano.

I suoi figli giocano a basket?

No, Dan Gay IV - 2.05 per 130 chili - avuto con la mia prima moglie americana - è allenatore di football americano alla high school di Houston Texas e mi ha reso nonno di due nipoti (Kensington di 10 anni ed Emory di 6), mentre Louis - avuto con la moglie italiana - pratica la boxe. Non hanno seguito le orme del padre? Me ne sono fatto una ragione.

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