Vertebra rotta, ma ricovero impossibile: muore dopo 5 giorni al pronto soccorso

Cantù La tragica odissea al Sant’Antonio Abate di una donna di 95 anni dopo una brutta caduta. La figlia: «Subito radiografia e Tac, gentili e collaborativi, ma contesto la rigidità del protocollo»

Dopo essere rimasta per cinque giorni in pronto soccorso dell’ospedale Sant’Antonio Abate, in un letto dell’osservazione breve intensiva, con una vertebra rotta a 95 anni, come vuole il protocollo nei casi come il suo, quando era arrivato il momento di trasferirla in un’altra struttura ha deciso che era arrivato il momento di decidere da sé, e ha chiuso gli occhi per sempre.

Almeno, così vuole pensare con tenerezza la figlia Stefania Verga, dopo averle detto addio. Oltre al dolore per la perdita della madre, oggi, le resta l’amarezza, non per il comportamento di medici e infermieri, che, sottolinea più volte, hanno fatto il possibile per aiutarla, ma per quella che reputa rigidità delle prassi, che forse dovrebbero piegarsi di fronte alla fragilità di una persona ultranovantenne. E anche per lo stesso commiato, in una camera mortuaria malmessa, tra muri scrostati, mozziconi e ragnatele, tanto che, ammette «avessimo avuto qualche attrezzo con noi, ci saremmo messi a fare pulizia».

Il racconto

Una manciata di giorni che Stefania non potrà mai dimenticare, cominciati il sabato della scorsa settimana, quando la madre, donna di 95 anni con problemi di deambulazione ma ancora una discreta autonomia, inciampa e cade in casa. L’ambulanza la porta in pronto soccorso a Cantù, dove le viene trovato un letto nell’Obi e vengono effettuati i primi esami, e dalla Tac emerge la rottura della seconda vertebra cervicale, la C2.

La prassi, scoprono i familiari, in questi casi non prevede l’intervento e il ricovero ma l’immobilizzazione fino al posizionamento del collare prescritto dal neurochirurgo, che però potrà venire acquistato solo il lunedì pomeriggio. Una volta applicato, la donna è pronta per venire dimessa.

«Una donna anziana – dice la figlia – stremata dopo quei giorni in pronto soccorso, immobilizzata. Ovviamente non potevamo portarla a casa in quelle condizioni, e il personale ha acconsentito a tenerla in quella stanzetta fino a quando avessimo trovato una sistemazione. Non solo, tutti ci hanno aiutato, dal medico di base, al geriatra che la seguiva all’infermiere di famiglia».

Si trova un posto in una Rsa a Lenno e si dispone il trasferimento per venerdì mattina, ma il giovedì sera la donna si addormenta per sempre. «Si vede che voleva decidere lei dove andare – le parole commosse – Io non voglio in nessun modo attaccare l’ospedale, tutti hanno fatto il loro lavoro, anche spendendosi, in maniera coscienziosa. Credo però che il sistema non funzioni, lo stesso protocollo utilizzato per una persona di 50 anni non può applicarsi a una di 95. So che mia madre in ogni caso non aveva molte possibilità, ma in questo modo, fosse stata anche una soltanto, credo sia stata annullata».

La sorpresa alla camera mortuaria

La famiglia ha poi deciso di fare ricorso alla camera mortuaria del Sant’Antonio. E se n’è pentita: «Siamo persone senza pretese – spiega – quindi abbiamo deciso di non scegliere l’opzione della casa funeraria, pensando che in ospedale avremmo comunque trovato una situazione decorosa. Purtroppo c’erano ragnatele sul soffitto, muri scrostati, una trappola per scarafaggi a due metri dalla bara di mia madre, un bidone dell’immondizia all’esterno e un posacenere che non venivano svuotati da giorni».

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