Riella parla per la prima volta in udienza: «Io, innocente fino alla morte»

Il processo Parla l’ex fuggiasco: «Sono ricco, non avevo bisogno di derubare due anziani per cinquecento euro». Accusato di rapina respinge le accuse. «Guadagnavo anche 9mila euro al mese. I soldi? Sotto terra, niente banche»

«Io non arriverà mai a picchiare due vecchietti per 500 euro. Non sono uno stinco di santo, ma la rapina non l’ho commessa io. Anche perché io i soldi gli avevo: non c’era bisogno di andarli a rubare ad altri». Il baffo che fa da cornice al ghigno da duro, qualche intercalare in dialetto, le manette ai polsi che «abbiamo già dato», per dirla con i giudici che non ci tenevano certo a essere testimoni di un’altra clamorosa evasione: così Massimo Riella è stato protagonista dell’udienza nel processo che lo vede imputato per la rapina, messa a segno il 9 ottobre di due anni fa a Consiglio di Rumo, ai danni di due pensionati (lui pure picchiato).

La moto in panne

Un paio d’ore di botta e risposta con il suo difensore prima, Roberta Minotti, e il pubblico ministero poi, Alessandra Bellù. Nei quali Riella ha negato di essere l’autore della rapina: «Sono innocente fino alla morte»; ha tratteggiato di sé la figura del rambo: «Io salgo sugli alberi a mani nude fino a 50 metri d’altezza. Nei cantieri usano me sui tetti perché li faccio risparmiare sui ponteggi»; si è sciolto in lacrime ripensando alla morte della madre: «Ero in carcere, innocente, arriva il mio avvocato e mi dice che è morta»; ha rivendicato il massacro di cervi: «Sono un bracconiere, io ne ammazzo 4 o 5 a sera».

Sceglie un tono conciliante e si fa guidare docilmente dal suo legale, Riella, mentre si sottopone all’esame davanti ai giudici del Tribunale. Primo obiettivo fornire una spiegazione alle immagini delle telecamere che, la sera della rapina, lo immortalano a passare in sella a una moto tra Consiglio di Rumo, zona casa dei rapinati, e Brenzio.

In sintesi: la sua moto - in realtà di proprietà di un “socio”, per così dire, che aveva aperto a suo nome una società collezionando debiti mentre Riella gestiva la società stessa e utilizzava il denaro del conto corrente - era in panne. Per metterla in moto è sceso fino al cimitero, che si trova sul percorso ripreso dalle telecamere. Non riuscendo ad accendere la moto, nel tardo pomeriggio si fa prestare quella dell’amico, Maicol Borgoni, che secondo Riella «ha qualcosa da nascondere su quella rapina... non dico che sia lui l’autore, ma sa qualcosa». Con quella moto torna al cimitero, quindi si reca in località Poncia (vicino alla casa dei rapinati) per recuperare una candela per la moto e provare a rimetterla in funzione. Ma non ci riesce e deve desistere.

Sarà ritenuto credibile? Lui garantisce: «I rapinati non li conosco, non ho mai parlato con loro e non sono mai entrato in casa».

La strage di cervi

Il resto dell’esame, Riella tratteggia ritratti di sé con sprazzi anche pittoreschi. Ad esempio quando gli vengono fatti vedere i vestiti sequestrati dai carabinieri - su uno di questi c’era una macchia di sangue dell’anziano rapinato e picchiato - e lui un po’ li riconosce e altri dice che potrebbe essere. E il passamontagna? «Certo, ne ho uno e lo uso per andare in moto, perché io non ho mai usato un casco in vita mia».

Poi c’è tutta la parte relativa agli introiti di Riella: «Io non avevo problemi economici - dice rispondendo alle domande del pubblico ministero - io guadagnavo 300 euro al giorno». E quindi, al mese? Chiede il pm. «Faccia lei i calcoli: 3 per 3». Tradotto? «Guadagnavo 9mila euro al mese per i lavori che facevo. E poi per ogni cervo ricevevo 250 euro e io ne ammazzo 4 o 5 a sera». A questo punto il magistrato gioca la carta a sorpresa. Ma come, così ricco ma chiede e ottiene l’ammissione al patrocinio legale a spese dello Stato? «Io ho sempre lavorato in nero». E il pm: «Presidente, chiedo la revoca del gratuito patrocinio». E l’avvocato: «Preso atto delle dichiarazioni del mio assistito rinunciamo al gratuito patrocinio». E tutti quei soldi che guadagnava che fine facevano? In che banca li metteva? «Banche? No, nessuna banca. Io i soldi li ho un po’ messi sottoterra per sicurezza».

Sul tetto del Bassone

Infine il capitolo legato alla sceneggiata del gennaio 2022, quando sale sul tetto del carcere del Bassone: «Ero un carcere innocente in carcere, accusato di questa rapina che non avevo fatto. Arriva il mio avvocato e mi dice che mia mamma è morta». Si commuove. «Ma com’è salito sul tetto?». Ritrova la sua spavalderia: «Salgono fino a 50 metri a mani nude, cosa ci vuole a salire sul tetto di un carcere?». E una volta su? Qui è l’unico momento in cui Riella sembra perdere le staffe: «Quando ero sul tetto l’ispettore della penitenziaria viene e mi prende per il c… Mi passa il telefono e mi dice che c’è il giudice e che sta arrivando e che avremmo sistemato tutto. Allora accetto di scendere e scopro che non è vero niente».

Prossima udienza tra una settimana. Tocca ai testimoni della difesa.

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