Il racconto del pentito
«Così Ciccio Mancuso
fu freddato al bar»

’Ndrangheta: l’affiliazione, il pentimento, le capre ammazzate allo zio, la polvere da sparo pulita con l’urina La deposizione di Luciano Nocera davanti ai giudixi

«Allora, signor Nocera. Parli chiaro nel microfono... La stenotipista scriva, e se ha difficoltà a seguire me lo dica».

Con le raccomandazioni - telegrafiche, peraltro - del presidente Valeria Costi, si è aperta ieri mattina, pochi minuti dopo le nove, l’udienza chiave del processo istruito in Corte d’Assise per l’omicidio di Francesco “Ciccio” Mancuso, massacrato mentre giocava a carte a un tavolino del bar Arcobaleno di Bulgorello il pomeriggio dell’8 agosto del 2008.

Collegato in teleconferenza da una località protetta - e senza mai volgere il volto a favore di telecamera - il collaboratore Luciano Nocera, 51 anni, originario di Giffone, ha detto quel che sa, ribadendo le accuse già verbalizzate nel 2015, quando - prima di rimediare un ergastolo tombale per la morte di un altro cristiano trascorso agli annali e a miglior vita, il povero Ernesto Albanese, sepolto sotto tre metri di terra in un giardino di via dei Partigiani a Guanzate - decise di redimersi e di attribuire il delitto al bar ai due imputati di oggi, Antonio Rullo, d’anni 51, sospetto esecutore materiale, e Bartolomeo Iaconis, 60, presunto mandante.

Ecco cosa ha detto Nocera, rispondendo alle domande del pm dell’Antimafia Sara Ombra, che l’ha presa piuttosto da lontano.

La notte dei Fiori di San Vito

«Lasciai la Calabria da bambino, a tre anni. Andammo ad abitare a Socco, poi traslocammo a Lomazzo quindi, a 14 anni, di nuovo a Socco. A Lomazzo ci andammo perché a mio nonno avevano dato un castello da curare. Poi però si ammalò, perdette il lavoro e con i miei genitori tornammo a stare in via Primo Maggio. Mio zio Mercuri Antonio, fratello di mia madre, è stato condannato per associazione mafiosa dopo gli arresti della Notte dei Fiori di San Vito, anno 1994, quando pure io finii dentro: un pentito diceva che ero affiliato alla locale di Fino, anche se poi mi tolsero il reato associativo e finii per essere condannato soltanto per droga. Sì, furono condannati altri familiari miei: i cugini di Calolziocorte, i Mandaglio, e Mercuri Bruno, cugino di mamma, che in realtà fu condannato sia dopo i Fiori sia dopo l’operazione Insubria...»

«Fino ai 22, 23 anni ho abitato sempre a Socco. Vivevo con mia nonna Rosa, al piano di sopra stava zio Antonio, che poi se ne andò quando ebbe completato la casa nuova. Mi ha cresciuto lei, la buonanima di nonna, mò è morta».

«Mi sono spostato a vivere in via Marconi quando mi sposai, con S., cugina a quello che divenne poi collaboratore di giustizia. Con la mia ex moglie ho vissuto fino al 1993, poi ho venduto e mi sono trasferito a Turate. Da lei ebbi il primo figlio, ma il matrimonio finì con l’arresto del 1994. Fui io a decidere che basta. Le dissi di non venire più ai colloqui. Uscii di galera due anni dopo, per decorrenza. Il pm non si era accorto che, venuta meno in Cassazione l’aggravante dell’associazione, i termini erano scaduti. Mi sono risposato nel 2004: la mia seconda moglie già la conoscevo dal ’96, e con lei ho avuto un secondo figlio. Ero detenuto per droga, la direttrice mi concesse un permesso premio per andare a nozze».

«Per vivere avevo due camion dei panini. Uno l’avevo messo a Vertemate, davanti al Gigante, l’altro ad Appiano Gentile, alla rotonda, quella per andare in Svizzera o verso Lurate, Lomazzo e Guanzate. Ho iniziato prima con uno, poi ho acquistato il secondo. Erano miei, i camion, c’avevo su gli operai... Ricordo Andrea, un ragazzo che morì in un incidente stradale, se non sbaglio nel 2009, il 27 o il 28 ottobre, pochi giorni dopo il mio compleanno, che è il 21. Poi, nel 2008, ho avuto un’ischemia, ho venduto tutto e nel 2010 ho comperato un locale ad Appiano Gentile. Si chiamava Black Mamba Café. A mezzogiorno si faceva cucina e la sera si facevano delle feste... Cercavo di portare gente dello spettacolo per tirarlo su... Ci lavoravo da solo, con S., la mia amante, che prima era stata assieme a Luciano Rullo, e siccome ogni settimana a Rullo gli davo 50 grammi di cocaina, allora gli chiesi se ancora la ragazza gli interessasse, e lui disse che no, e io allora me la sono presa. Eravamo cresciuti insieme, io e Luciano, avevo stima di lui, per questo mandai mio cugino a parlarci, e Luciano si raccomandò soltanto di trattarla bene a S. Gli feci sapere che poteva stare tranquillo, che sì, l’avrei trattata bene».

Le capre ammazzate

«Mi zio Antonio ebbe per un po’ il ristorante sulla provinciale, vicino al vecchio Miazzo, dove vendevano i giocattoli, che è poi diventata una sala giochi di cinesi. Dopo quel ristorante ha gestito una attività di movimento terra, ce l’ha ancora se ho capito bene, perché ormai, dopo che è iniziata la mia collaborazione, ho smesso di avere collegamenti (con i familiari, ndr)... Ho saputo che gli hanno ammazzato delle capre, che gli hanno bruciato un escavatore. Aveva diversi escavatori, un po’ di camion, li teneva fuori casa, con le chiavi inserite nel quadro... All’inizio non aveva problemi, prima che il nipote iniziasse a collaborare. I figli di mio zio sono tre (...), più un altro che è morto quando aveva appena otto anni. I suoi rapporti con Iaconis risalgono a molti anni fa. Ricordo che quando avevo 14 vennero i carabinieri da noi a fare una perquisizione, cercavano lui, Iaconis, che era latitante, e vennero giù al piano terra e mi dissero di salire di sopra dallo zio, senza dirgli però che c’erano lì loro. Allora io salii e la prima cosa che gli dissi fu... “Zì, guarda che ci sono i carabinieri”... Dottoressa: ricordo che mi gonfiarono un pochino di botte, perché cercavano a Bartolino (Iaconis, ndr), che se ne stava nascosto in una stanza... Era ricercato per droga, era il periodo in cui da giù veniva suo padre e si appoggiava a casa mia a dormire e mia nonna gli preparava da mangiare perché lo portasse in carcere... Aveva una Ritmo, mia nonna, lui partiva e portava il cibo in carcere».

«Mia madre? L’ho risentita di recente, dopo tre, quattro anni, a mio figlio ho scritto, nemmeno mi ha risposto, ma fa niente, ognuno deve fare le sue scelte. Quanto a mio zio sì, lui si è fatto sentire. Prima della mia collaborazione eravamo legati, l’avevo difeso quando parlavano male di lui... A Fino Motori gli dissi che gli bruciavo l’officina, ma non di notte, gliel’avrei bruciata di giorno, gli dissi, perché a me, dottoressa, la galera non mi fa paura. È sempre mio zio, sangue del mio sangue, non mi piace che la gente gli parla alle spalle, anche se è vero che abbiamo avuto contrasti... Lui non voleva che io facessi la droga, non gli piaceva avere un nipote che spacciava, mentre io ho sempre lavorato con l’eroina negli anni Novanta, e poi cocaina, fumo hascisc e marijuana».

«Mi arrestarono di nuovo nel ’98, o nel ’99, sei anni per spaccio, poi mi sono arrivati gli altri definitivi e poi ho preso l’ergastolo. L’ergastolo per l’omicidio di Albanese».

Nessuna pietà per chi tradisce

«Sono stato affiliato da Luigi Vona, il capo della locale di Canzo. Eravamo nel carcere di Como. Mi scelse perché ci teneva a me, conosceva la mia storia e diceva che me lo meritavo, che ero uno che s’era sempre fatto i fatti suoi, che mi comportavo bene e tutto il resto... Mi ha battezzato, m’ha fatto una croce dietro la schiena, poi quando usciva il sangue l’ha raccolto in un bicchiere e l’ha bevuto perché diceva che il sangue di un santista non si butta, va raccolto, e poi mi ha fatto bruciare un santino e mi ha fatto giurare che se uno della mia famiglia, mia madre, mio padre, mia sorella, insomma se chiunque avesse tradito, avrei dovuto ammazzarlo».

«Per quello che ne so io Iaconis era il capo della locale di Fino, anche se poi, quando è uscito Michele Chindamo, non s’è capito più nulla... Iaconis non mi ha mai detto che faceva parte della locale di Fino, ma a Fino lo sapevano anche le pietre della strada che era lui che comandava. Volevano aprire anche una locale a Cadorago ma a Cadorago non c’era la caserma dei carabinieri, e quindi non si poté fare, perché questa è la regola, che la locale si può aprire soltanto se c’è una caserma».

«Il giorno che fu fatto l’omicidio (di Bulgorello, ndr) io ero appena tornato dal mare e me ne stavo a Lomazzo al bar di Gianni M. Sentii le sirene dei carabinieri, e siccome avevo fuori gente che lavorava per me con la cocaina - c’era Silvano e c’era Peppe “Arancito”, che lavorava a Puginate - allora pensai di andare a controllare cosa fosse successo. Avevo una Mini Cabrio, arrivai a Bulgorello dove abitavano i parenti miei, i miei cugini, e tutti erano preoccupati (...) Dopo il delitto, se ben ricordo, Rullo se ne andò in Calabria, e quando tornò s presentò da me, al camion dei panini. Mi disse: digli a tuo zio e a suo figlio di farsi i c... loro, testuali parole, perché quel giorno “mi hanno visto che correvo, dietro al cimitero di Socco per tornare a casa...”. E mi raccontò dell’omicidio, che lo aveva fatto lui, mi disse, che a Ciccio Mancuso ci aveva sparato lui perché Ciccio aveva sbagliato. E mi disse anche che Iaconis gli aveva dato un rottame di moto, e che dopo l’agguato dovette spingerla per accendere il motore e per portarla su nei boschi e darci fuoco... Sa perché mi viene da ridere dottoressa, anche se non c’è niente da ridere? Che anche con il casco in testa Rullo lo riconosci, ha la camminata inconfondibile, ad arcata, tipica di quelli che vanno a cavallo, lo riconoscono tutti i miei compaesani, quelli che non vogliono la legalità e che gli piace farsi mettere sotto, quelli che sputano a terra quando vedono i miei familiari... Ecco, la camminata di Rullo è inconfondibile (...) Mi disse anche che dopo l’omicidio si era lavato con l’urina per togliersi dalle mani la polvere da sparo...»

L’epilogo

«Giocava a carte Mancuso, quando morì. Era all’esterno del bar. C’è un cortile, quattro tavolini. Ci sono stato 20mila volte in quel posto, era frequentato soltanto da giffonesi, paesani miei... Rullo mi disse che lo aveva anche chiamato: “Ciccio”, gli disse. Poi sparò».

La parte conclusiva della testimonianza di Nocera riguarda la ricostituzione di una ennesima locale, dopo quelle smantellate nelle varie attività di indagine dell’Antimafia: «Dovevamo ricostruire tutta la ’ndrangheta nel Comasco. È andata bene, dottoressa, che quella sera ci avete arrestati tutti. Io, Franco Virgato e Andrea Internicola ci stavamo preparando. Il primo a dover morire era (...)..».

C’era qualche timore, alla vigilia della deposizione di ieri, per la tenuta emotiva di Nocera, e per la sua reale volontà di confermare le accuse rivolte prima di rimediare l’ergastolo per il delitto Albanese. Invece Nocera si è mostrato sicuro: «Ho fatto la mia scelta - ha concluso -... L’ho fatta il giorno che mio figlio, minorenne, venne in carcere a raccontarmi cosa stava succedendo là fuori, che erano andati a casa sua e di sua madre a fare estorsioni... Erano le stesse persone per le quali avrei dato la mia vita. Quel giorno per me la ’ndrangheta è finita. Chiesi immediatamente di poter parlare con il comandante delle guardie. La scelta migliore che ho fatto nella mia vita». Si torna in aula il 2 marzo. (Stefano Ferrari)

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