Il Rosso e le “bionde”: «Contrabbandiere sì, ma sempre onesto»

Bizzarone Augusto detto anche Russett, il “macelarin”, perché aveva cominciato come garzone di macellaio e i contrabbandieri hanno tutti un soprannome. Qui la sua storia

Una corona del rosario tra le mani esangui: è tutta la cosa materiale che Augusto Arcellaschi porta con sé nel Mistero dell’Aldilà.

I grani brillano per la luce che entra dai finestroni della Casa Funeraria Cincera, ma non sono diamanti e il filo che li trattiene forse non è d’argento: «Le ha date, le ha prese, ha pagato fino allo stremo ed è morto povero, con un unico desiderio: vedere i suoi figli laurearsi. Non ha fatto in tempo; in un mese e mezzo, un male inguaribile l’ha vinto», sussurra un’astante.

Avrebbe compiuto 80 anni il primo agosto prossimo ed ha ancora una sfumatura rossiccia nei capelli bianchi: lui è il “rosso di Albiolo”, detto anche Russett, il “macelarin”, perché aveva cominciato come garzone di macellaio e i contrabbandieri hanno tutti un soprannome.

«Contrabbandiere, sì. Ma onesto»: non aveva esitato a dirlo al giudice che a Como l’aveva condannato a 11 anni, ridotti a sei dalla Cassazione, ritenendolo responsabile dello “scandalo delle dogane”, vale a dire 160 Tir di sigarette accertati, fatti passare con la complicità dei vertici di finanzieri e doganieri ammansiti, mettiamola così.

La prima condanna di tante altre.«Uno dei sette boss mondiali del contrabbando», per organi giudiziari e di polizia di Italia, Svizzera e Serbia: questo era Augusto Arcellaschi.

Ma lui ha sempre detto di aver fatto solo “bionde”, mai droga, valuta, clandestini. S’è chiamato fuori anche da una rapina ai Monopoli di Stato che gli era stata addebitata e da responsabilità in altri colpi da leggenda.

«Il mio è un commercio all’ingrosso - dichiarò - non ho niente da spartire con mafie e cose del genere».

Tanto all’ingrosso che, a parte Tir e navi, voleva addirittura far passare un carico in treno dalla Svizzera in Italia. Per 14 anni fu considerato latitante, ma era a tre chilometri da Como, a Rancate, in una villa monumento nazionale da 20 milioni di franchi, un freguj, un pochino, di un vortice di soldi, belle compagnie, viaggi forse vacanzieri, forse d’affari, lussi e sfarzi. E “ul lavurà” a getto continuo.

«Sono un uomo di mondo: posso dormire in un albergo a cinque stelle o per terra: so come gira, pazienza, questa è la vita»: è una delle sue frasi memorabili rilasciate in un’intervista al nostro giornale.

Memorabile come la storia del dito: fuggiva dalla Guardia di Finanza, la fede matrimoniale si impigliò in una recinzione, si taglio il dito e continuò la fuga. Dito e vera restituiti in formaldeide.

«Che raza da destin», dice un amico tra i tanti che lo visitano per l’ultima volta nella casa funeraria: Arcellaschi stesso ha scelto di tornar qui, a un passo dalla rete di confine dei suoi primi sfrosi.

Non c’è più niente di allora. Restano le memorie di un uomo che se ne va con un rosario tra nove dita.

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