Maria Castelli, 52 anni di giornalismo: «Maggiolini chiamava all’alba. Don beretta il mio rimpianto»

L’intervista «Ho cominciato nel 1972, a L’Ordine. Poi La Provincia e la Rai. Ho vissuto per le piccole storie, credo che la fede mi abbia salvata»

C’è un bosco davanti a casa. Lassù oltre gli alberi si intravede la chiesetta di San Maffeo. «Bellissima passeggiata. E bellissimo bosco. Pensa che un bosco era anche il regalo che mio figlio Andrea avrebbe voluto per la sua laurea. Quando ho tempo mi ci dedico un po’. Mi piace tenerlo pulito». Maria Castelli compie 70 anni domani, il 25 febbraio, «stesso giorno di Craxi e di Chopin», scherza lei. La voce, un po’ roca e inconfondibile, è la stessa che fino al 2012 raggiungeva gli ascoltatori del Gazzettino padano due volte al giorno, alle 7.20 e alle 12.10. «Vittorio Nessi, il magistrato, mi prendeva un po’ in giro. Aveva coniato una definizione che non posso riferire... Ma la colpa di questa voce è solo di qualche sigaretta di troppo».

Alla professione Maria ha dedicato 52 anni. L’Ordine, La Provincia, il Giorno, poi ancora La Provincia, la Rai. Mai ferma. Oggi scrive ancora per la “sua” Provincia ma va anche molto fiera del bollettino parrocchiale della comunità di Uggiate con Ronago: «Guarda qui - dice sorridendo -. Come noi nessuno: settantaquattro pagine, sei uscite all’anno. Direttore responsabile: Maria Castelli».

Tanti anni, tanti taccuini, tanta cronaca e tanti chilometri. «Quando facevo la corrispondente dai Comuni del lago uscivo di casa ogni mattina e imboccavo la Regina. Dopo la scomparsa del mio Andrea, che morì a Brienno, non ce l’ho più fatta. E chiesi di tornare a Como. Però a Menaggio e ai Comuni del lago mi legano dei ricordi professionali bellissimi».

Il giudice Angiolini dice sempre che i pezzi scritti «dalla Castelli» sui suoi processi erano insuperabili.

Il merito era anche di quel piccolo tribunale, dei magistrati e degli avvocati che vi lavoravano. Non solo Angiolini. Ricordo sempre con piacere tantissimi volti. Anni belli. Le comunità del lago, i paesi, i piccoli centri della provincia sono stati sempre un avamposto di umanità. Dove trovi un luogo in cui un marito geloso querela un macellaio che insiste a fare sconti a sua moglie? Oggi, quando posso, di quei posti scrivo ancora.

Perché giornalista?

Ho iniziato per caso, nel 1972. Dopo le superiori mi ero iscritta all’università ma c’era bisogno di lavorare. Venivo da una famiglia modesta. Abitavamo ad Albiolo. Mamma, papà, quattro nonni e quattro figli, io la maggiore. Mia madre lavorava in casa per un maglificio che la pagava una miseria, papà invece era impiegato alla Aermacchi di Varese. Mi diceva: se cerchi il riscatto sociale devi studiare, ma agli studi devi anche poterti mantenere. Un giorno, fuori dalla sede de L’Ordine incontrai il direttore, don Peppino Brusadelli. Gli chiesi se conoscesse qualcuno che aveva da offrire un lavoro e finì che a offrirmelo fu lui. Per 10mila lire al mese scrivevo le recensioni dei film.

Che ricordo conservi di don Brusadelli?

Su “don Giuseppe Brusadelli polemista” scrissi la tesi di laurea. Allora, ero molto critica. Oggi dico che aveva ragione.

Su cosa?

Il suo postulato era: il mondo cambia, ma i valori fondamentali non possono venir meno. Altrimenti la società non è più in grado di reggersi.

Poi passasti alla cronaca...

In cronaca esordii tempo dopo, con il successore di Brusadelli. Si chiamava Pietro Zullino. Mi aveva chiesto di fare la segretaria di redazione ma una mattina serviva qualcuno che andasse a intervistare i maturandi fuori dalle scuole, e siccome non c’era nessuno ci andai io. Quello fu il mio primo articolo per così dire “di cronaca”. Poi però l’avventura de L’Ordine si esaurì.

Anno?

Era il 1984, quello della grande crisi dei giornali di Como. Chiusero L’Ordine e La Notte, la Curia cedette il Settimanale della Diocesi e La Provincia licenziò il direttore Gianni De Simoni, mentre Felice Bernasconi lanciava la sua Espansione tv. Io, nel frattempo, avevo iniziato a lavorare un po’ anche per la Rai.

Lavorasti anche al Giorno.

Sì, tre anni. Poi però tornai a La Provincia; fu allora che il direttore Wladimiro Dan mi assegnò la cronaca delle pagine di “Lago e valli”.

Come si arriva da Albiolo a corso Sempione?

Una sera, ancora ai tempi de L’Ordine, risposi a una telefonata in redazione. Era Antonio Velluto, caporedattore Rai che cercava qualcuno che ogni tanto gli mandasse qualche notizia da Como. Pagavano poco, ma mi proposi. Fui convocata a Milano per un provino. Mi dissero di non indossare nulla di bianco perché in tv il bianco, come si dice, “spara”. Io temevo che il mio forte accento comasco mi avrebbe ostacolato. Invece in Rai si raccomandarono di fare il possibile per conservarlo. Era giusto, mi dissero, che anche nel modo di parlare i corrispondenti rappresentassero l’identità dei territori in cui lavoravano.

Gli archivi dei giornali sono sempre fonte di ricordi interessanti. In quello de La Provincia c’è una foto che ti ritrae accanto a don Renzo Beretta, più o meno un mese prima dell’agguato che gli costò la vita. Era il mese di gennaio del 1999.

Ricordo benissimo quel giorno. Don Renzo è stato per molti anni un mio rimpianto. Passavo davanti alla sua chiesa quattro volte per andare e venire da casa, mattino, pomeriggio e sera. Il sagrato era zeppo di extracomunitari che tentavano di entrare in Svizzera, ma ancora non posso dire che ci fosse contezza del fenomeno. La città ancora non si rendeva conto di quanto stava accadendo. E io neppure. Poi un giorno vidi una famigliola: padre, madre e due bambini. E mi fermai. Faceva freddo, se ben ricordo calzavano tutti un paio di sandali. Don Renzo uscì e se li portò in canonica, dando ai bambini latte e biscotti. Il maggiore dei due si avvicinò al fratellino per mostrargli come fare a usare il cucchiaio ma il più piccolo trasse a se la tazza e la strinse al petto come si sarebbe fatto con un orsetto. Quasi ringhiava. Era terrorizzato, temeva che suo fratello volesse portargliela via. Quella sera realizzai che alle soglie del nuovo millennio si poteva ancora patire la fame.

E di don Renzo cosa ricordi?

Non era un uomo facile. Era brusco, scostante. Mi rimproverava sempre: «Che ci fai qui?». Ma bisognava anche comprendere il contesto. Erano tempi e luoghi pericolosi. Don Giovanni Meroni, il suo vicario, andava ripetendo che prima o poi qualcosa sarebbe successo. Pensa che un giorno, nel refettorio improvvisato che avevano allestito in parrocchia, sedevano settanta maschi adulti, e ognuno di loro nascondeva un coltello in tasca.

Autodifesa?

Era tutta gente di strada, aggressiva, gente che sì, forse doveva anche difendersi. In Svizzera gli aizzavano contro i cani. Aveva ragione monsignor Maggiolini quando diceva che nel mondo c’è più dolore che peccato.

E infatti la cronaca, purtroppo, è fatta anche di lacrime.

Quante. Un oceano di lacrime. Ogni tanto mi torna in mente la vedova del brigadiere Carluccio, ucciso nel 1981 da quella bomba esplosa in viale Lecco. Ero all’obitorio dell’ospedale Sant’Anna quando entrò. L’abito bianco, i capelli nerissimi. Veniva da Scorrano, in provincia di Lecce. Aveva 21 anni ed era madre da pochi mesi. Quel giorno piansero anche i muri. Ma in realtà la cronaca è strana. La sai la storia del funerale senza lacrime di Roberto Calvi?

Il banchiere?

Certo, lui, il banchiere di Dio, quello del Banco Ambrosiamo di Sindona, dello Ior e del ponte dei Frati neri, a Londra. Era il 1982 e le esequie si tennero a Drezzo, dove Calvi aveva acquistato un cascinale il cui terreno coincideva con il confine di Stato. Si diceva che gli piacesse “trafficare”. Con il parroco era stato prepotente, ma quello il funerale glielo fece lo stesso. Fu fissato alle 6 del mattino: c’eravamo io, un paio di funzionari di banca, qualche pia donna e tre colleghi che come me erano stati costretti a quella levataccia. Fu sepolto in paese. Neanche un fiore. Poi, qualche anno più tardi, la salma fu traslata altrove.

Storia da romanzo.

Sì ma di libri non ho voluto scriverne mai. Mi sono sempre piaciute le storie per così dire più “piccole”, lontane dai riflettori della grande cronaca: il barista candidato sindaco che in Val d’Intelvi si rifiutava di servire il caffè a chi non l’aveva votato o il latitante che in valle Albano fu scoperto perché tutti i giorni spediva lettere alla sua amata dalle poste di Garzeno. Ho vissuto per storie così.

Che rapporti avevi con Maggiolini?

Maggiolini mi telefonava la mattina alle 7.«Maria - diceva - oggi “dichiaro”». Io ero sempre sveglia, avevo i ragazzi da portare a scuola. Gli dicevo, «ottimo eccellenza ma per cortesia non “dichiari” troppo tardi che io ho il Gazzettino alle 12 e il Tg alle 19».

Maggiolini ebbe sempre un ottimo rapporto con gli organi di informazione.

Era spesso ospite di Vespa, di Gad Lerner, di parecchi talkshow. In questo fu davvero un pioniere, aveva compreso l’importanza della comunicazione. Un Venerdì santo mi telefonò per preannunciare la solita “esternazione”, così al pomeriggio dopo la processione, seguii messa e omelia. Beh, sai che fece? Parlò tutto il tempo della Ticosa. Stentavo a crederci. Dopo la cerimonia glielo feci notare ma lui rispose che se avesse discettato di “transustanziazione” non gli avrebbe dato retta nessuno: «Maria - mi disse -, parlando della Ticosa faccio passare il messaggio cristiano: la morte e la resurrezione».

Per la verità la resurrezione della Ticosa è ancora di là da venire.

Era l’argomento di cui già allora parlavano tutti. Una sera, prima dell’abbattimento, con l’operatore della Rai ci entrammo anche, nonostante le diffide di Comune e questura. Era buio, urtai qualcosa che pendeva dal soffitto, il cameraman accese il faro e ci ritrovammo di fronte alla carcassa di una capra appesa a una trave, ancora sanguinante. C’era un paese là dentro: masserizie, cucine da campo, giacigli, addirittura uno spazio adibito a moschea. Gli “inquilini” furono tutti gentili ma in moschea non mi fecero entrare perché non avevo il velo. Proposi di mettermi in testa la custodia della telecamera ma non passò.

Bisogna riconoscere che hai sempre avuto una predilezione per l’“umano” nell’uomo.

Ti rispondo con un aneddoto: ricordi la notte di quello scontro tra due treni, a Chiasso? Era il febbraio del 2002. La polizia cantonale mi mise a sedere su una panchina accanto ai binari raccomandandomi di non muovermi da lì. Era un bel casino quella storia, neppure si capiva se l’incidente fosse avvenuto in territorio italiano o svizzero. Comunque: Rai International pretendeva aggiornamenti continui, così dovetti restarmene lì tutta notte, al gelo e affamata, ché neppure avevo cenato, con i cadaveri di quei due poveri macchinisti ancora incastrati tra i rottami delle motrici. Peraltro c’era una certa agitazione perché su un binario lì vicino era fermo un altro merci che trasportava sostanze chimiche, e francamente non voglio immaginare cosa sarebbe successo se fosse rimasto coinvolto nell’incidente. Comunque: alle 5 del mattino comparve un addetto alle pulizie, un ragazzo straniero, di colore. Si fermò con la sua ramazza, mi chiese cosa facessi lì su quella panchina e io gli risposi che aspettavo qualche notizia dalla polizia. Mi domandò: «Ha fatto colazione?». Gli risposi di no. Dopo cinque minuti ricomparve con una brioche.

Pensi che questa tua capacità di cogliere la spiritualità delle cose ti abbia aiutato nella vita?

Fammi dire una cosa “grossa”. A volte penso che in questa nostra diocesi il Cielo abbia voluto dirci qualcosa. In vent’anni sono mancati, e sappiamo come, prima don Renzo Beretta, poi suor Maria Laura Mainetti, infine don Roberto Malgesini. Non so in quale altra Diocesi del mondo, quantomeno nel nostro Occidente, sia capitato qualcosa di simile. E poi Maccio,il santuario. Sono convinta al cento per cento che di mezzo ci sia il soprannaturale. Vuoi sapere se la fede mi ha aiutato? Sì, tanto. La vita mi ha messo spesso alla prova. E senza fede, probabilmente, non ce l’avrei mai fatta.

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