’Ndrangheta, ad Appiano le “mangiate”: un settantenne del posto ha prestato il box dove si svolgevano le riunioni malavitose

Il processo Tre incontri per organizzarsi, ma un testimone della difesa minimizza: «Mi prendevano in giro perché faccio il cacciatore, dicevano che sparavo ai pappagalli»

«Le armi? Ma no... scherzavamo, al massimo mi prendevano in giro perché faccio il cacciatore e dicevano che sparavo ai pappagalli».

A parlare, chiamato dalla difesa di uno degli imputati (Leo Palamara, 52 anni), è stato uno degli uomini che con lui si vedevano nel box seminterrato di Appiano Gentile dove, per l’accusa, andavano in scena le “mangiate”, quelle che la Dda definisce come «incontri e riunioni» della malavita organizzata di stampo calabrese coinvolgenti «la locale di Fino Mornasco» e in cui «venivano discusse questioni di ’ndrangheta rafforzando il vincolo tra gli associati».

Le contestazioni

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Tra le nove “mangiate” finite nel capo di imputazione del processo in corso anche a Como e figlio dell’operazione denominata “Cavalli di Razza”, tre si sarebbero svolte in un box di Appiano Gentile per la precisione il 15 maggio 2020, il 13 settembre 2020 e l’11 novembre sempre dello stesso anno.

In aula, ieri mattina, a rispondere alle domande del pm della Dda Pasquale Addesso, sono sfilati i testimoni della difesa, tra cui l’uomo che aveva dato a Palamara il box, ovvero un settantenne di Appiano Gentile. «Mi aveva chiesto se glielo prestavo e l’ho fatto, a me non serviva. Cosa ci facesse? Non lo so... pensavo che ci andasse con qualche amica», ha risposto il proprietario del garage ai giudici del Collegio.

Sentenza prevista il 27 aprile

Poi, sulla sedia dei testimoni, si sono seduti due uomini che avrebbero preso parte a quelle mangiate ma cui non vengono contestate accuse. Uno di questi è appunto il cacciatore di uccelli - «avevo portato dei tordi da mangiare» - che, secondo la difesa, veniva preso in giro per la sua passione ed è per questo che alle riunioni si parlava di armi.

«In una intercettazione ambientale – ha però replicato il pm – si parlava di “un porco” cui era stata puntata “la pistola in testa”, pure “davanti alla madre”». La vittima in questione sarebbe stato, nella ricostruzione della pubblica accusa, il cugino del testimone sentito ieri. «Ma no... si scherzava, non è vero niente - ha detto il cacciatore - L’ho anche chiesto a mia cugina, poi, ma mi disse che erano tutte bugie».

Insomma, in quelle riunioni e mangiate in cui per la Dda si parlava di pistole puntate in testa e di questioni di malavita, per i testimoni sentiti ieri si sarebbe mangiato sì, ma poi solo bevuto e giocato a carte. E anche quello che in un’altra intercettazione viene definito il «battesimo della spada», era in realtà «una invenzione», oppure «uno scherzo» successivo ad un eccesso nelle bevute. «E poi io tutte queste cose non le ricordo, se si parlava di armi era solo perché prendevamo in giro il nostro amico cacciatore».

Al termine della mattinata ha poi chiesto di parlare uno degli imputati, Antonio Carlino (49 anni): «Io sono di Gioia Tauro – ha detto al presidente del Collegio, Valeria Costi – e la mafia mi fa schifo. La mia colpa? È stata solo quella di prestare soldi alla famiglia Ficarra, processatemi per quello, ma non dite che sono mafioso perché non è vero».

L’udienza di ieri è servita anche per stilare in calendario che condurrà alla sentenza di primo grado per gli undici imputati. Il pm parlerà il 23 marzo, poi la palla passerà alle difese nelle tre udienze successive. La sentenza dovrebbe arrivare il 27 aprile. A Milano, in Abbreviato (in 34 hanno infatti scelto questo rito) il primo grado si è già concluso con condanne superiori ai 200 anni.

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