’Ndrangheta, condanne nel Comasco: «Imprenditori asserviti per interesse»

Bassa Comasca Considerazioni severe nelle motivazioni dell’inchiesta “Cavalli di Razza” «Personaggi collusi con la mafia, in cerca di vantaggi, ma che poi ne sono rimasti vittime»

«Imprenditori asserviti alle ragioni del lucro, al punto di essere disposti a scendere a patti con la criminalità organizzata». Persone che si «illudono di ricavarne vantaggi personali, magari anche temporaneamente raggiunti, ma con l’ineluttabile epilogo di trovarsi poi nell’implacabile morsa delle violenze, delle minacce e delle più o meno esplicite intimidazioni».

Per questo motivo, «se questo è il quadro restituito dalle risultanze probatorie», non deve stupire «che il professionista o l’imprenditore tendano a perdere la classica connotazione di vittime per assumere piuttosto il carattere di complici o “collusi”».

Trecento pagine

Sono parole pesantissime quelle che rientrano nelle oltre 300 pagini delle motivazioni scritte dal Collegio di Como (vergate dal giudice estensore Veronica Dal Pozzo) per spiegare le condanne che erano state lette in merito al processo alla ’ndrangheta comasca denominato “Cavalli di Razza”. Il fascicolo era stato diviso in due parti, con una buona sezione di indagati che avevano scelto – a Milano – il giudizio Abbreviato che aveva condotto a 34 condanne per oltre 200 anni di reclusione. I rimanenti undici erano stati processati – senza riti alternativi e senza dunque sconti di pena – nel palazzo di giustizia cittadino e il Collegio presieduto da Valeria Costi (con a latere Veronica Dal Pozzo e Maria Elisabetta De Benedetto) aveva condannato otto imputati, assolvendo gli altri tre.

Il processo

Le motivazioni di cui stiamo scrivendo parlando proprio di quest’ultimo processo, quello alla ’ndrangheta comasca che secondo l’accusa faceva capo alla locale di Fino Mornasco che spadroneggiava nella Bassa Comasca. Nel dispositivo della sentenza i giudici avevano riconosciuto la presenza dell’associazione mafiosa sul territorio della nostra provincia con condanne che – come detto – erano andate ad aggiungersi a quelle in Abbreviato fornendo un quadro di infiltrazioni nell’imprenditoria comasca e brianzola altamente preoccupante. «In questi territori c’è una domanda di evasione endemica – aveva detto il pm della Dda Pasquale Addesso nella propria requisitoria, dopo aver condotto le udienza accanto all’altro pm Sara Ombra – per questo gli imprenditori non si rivolgono allo Stato, perché rivolgersi allo Stato sarebbe un problema. Questa è però una visione poco lungimirante, di chi pensa di gestire la ’ndrangheta come se fosse un costo aziendale... ma non è così». E le motivazioni hanno confermato questa posizione, parlando espressamente – oltre a quanto già detto all’inizio – di una «trama di relazioni tra estorsori ed estorti in cui lo stereotipo schema vittima-aggressore assume connotati sfumati», in quanto la ’ndrangheta «è capace di penetrare pienamente nel tessuto economico locale prima avvicinando gli imprenditori e i professionisti – scrivono i giudici di Como – con modalità ora estorsive ora truffaldine, per sfruttare l’omertà ingenerata in costoro per farne dei soci in affari».

«Un terreno permeabile, quello del mondo imprenditoriale, politico e professionale locale – concludono i magistrati del Collegio – che si è reso disponibile ad entrare in rapporti di reciproca connivenza con il sodalizio mafioso», non subendo solo la ’ndrangheta ma «cercando anche di fare affari con essa». Finendo spesso con il bruciarsi. Le condanne lette a Como – 8 su 11 imputati, come detto – erano arrivate nel massimo anche a 16 anni e 10 mesi di reclusione.

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