Il presepe di Talamona prende vita

Il racconto di Natale di Silvia Montemurro

Non gli sembrava vero che mancassero solo tre giorni a Natale. Giovanni chiuse la porta del suo capanno degli attrezzi e si caricò la legna in spalla. Era sempre così, tutti gli anni: fino a novembre i giorni gli parevano andare lentissimi, poi a un certo punto, i primi di dicembre, tutto accelerava e lui si ritrovava a pochi giorni prima del Natale con il rammarico di non esserselo goduto abbastanza.

La Morena, la sua amata moglie, preparava il presepe già dall’otto dicembre e dallo stesso giorno si metteva a sfornare biscotti e a confezionare i regali per i loro nipotini. Se li trovava ovunque, anche nel cassetto dei calzini.

«Non so mai dove nasconderli», ridacchiava lei, nel vedere la sua faccia perplessa.

Giovanni guardò l’ora: aveva fatto tardi al lavoro anche quel giorno e lei si sarebbe arrabbiata, perché al giovedì sera si cenava insieme al figlio più grande e alle due splendide nipotine di otto e sei anni.

«Potresti anche vendere la ferramenta», gli diceva ogni tanto lei «e smettere di lavorare. Non puoi goderti anche tu la pensione?

E a niente serviva spiegarle che a lui quel lavoro piaceva e che non aveva proprio voglia di starsene con le mani in mano.

La Morena era una brava donna, forse lui non se la meritava. Erano sposati da trent’anni e non si erano mai lasciati un giorno.

Prima anche lei andava al negozio di ferramenta, a dargli una mano. Ora preferiva aiutare i figli a curare i numerosi nipoti.

Nel tornare a casa, Giovanni decise di fare una breve tappa al presepe di Talamona, che ogni anno veniva allestito sulla sponda del fiume. Gli piaceva passare di lì soprattutto la sera, quando c’erano meno visitatori, e rimanere in ascolto.

Le figure a misura d’uomo gli recavano un fascino antico, come se anche lui facesse parte di quel dolce quadretto. Quando ci andava con sua moglie, fingeva che tutto fosse meno magico, perché lei era estasiata come una bimba, lui invece voleva fare il superiore. Era un po’ il ruolo che si era scelto, solo i suoi nipotini riuscivano a scioglierlo.

Quella sera, quando passò accanto al consueto uomo impagliato che trascinava un carretto, si fermò a guardarlo e gli venne da parlargli ad alta voce.

«Amico mio», sussurrò «non sarebbe ora anche per te di andare in pensione?»

Il pupazzo, che ogni anno trascinava la stessa legna sullo stesso carretto trainato da un asino, rimase immobile. Giovanni continuò a osservarlo, fino a che un ciocco di legna cadde dal carro.

«Cosa diavolo…», fece Giovanni, che si chinò a raccoglierla per sistemarla.

Quando la rimise sul carretto, l’uomo impagliato aveva cambiato posizione: non stava più guardando l’asino, ma i suoi occhi puntavano verso Giovanni.

Lui indietreggiò.

Cercò di stare calmo, di prendere due o tre respiri profondi, mentre quegli occhi disegnati non la smettevano di fissarlo.

«Era già in quella posizione prima, mi sto confondendo», si disse ad alta voce.

Poi se ne andò con un certo passo frettoloso.

Una volta a casa la Morena gli fece la predica, perché era in ritardo. Lui impilò la legna raccolta vicino al camino, mentre le sue nipotine giocavano sul tappeto.

«Non hai niente da dire a tua discolpa?», incalzò la moglie.

«Niente di niente», confermò Giovanni, ancora scioccato per quel che era successo un attimo prima.

Quando si misero a tavola tutti, con il figlio, la nuora e le bambine, non riusciva a rimanere concentrato nei discorsi.

A un certo punto, che proprio non riusciva più a tenerselo dentro, disse:

«Carlo, tu che hai aiutato a fare il presepe, quest’anno, sai mica se hanno cambiato l’uomo del carretto?»

Suo figlio lo guardò di sbieco.

«Eh?»

«L’uomo con il carretto della legna, vicino alla capanna. Hanno cambiato o riparato il personaggio? Una volta guardava l’asino»

«Non mi pare, no. Ma non ne sono sicuro», disse Carlo, che lanciò un’occhiata alla moglie.

Giovanni pensò che aveva fatto la figura del rimbambito.

Prima di andare via, Ambra, la sua nipote di sei anni, gli prese una mano e gli fece cenno di avvicinarsi, perché voleva dirgli qualcosa all’orecchio.

«L’uomo del carretto», gli sussurrò «si chiama Ernesto e mi ha detto di salutarti».

Giovanni le mise una mano sulla spalla.

«Grazie, cara, salutalo tanto anche tu per me».

«Oh, ha detto anche di guardare dove guarda lui, se ne avrai bisogno».

Giovanni rise e pensò che la sua nipotina fosse un vero spasso.

Aiutò la Morena a lavare i piatti e nessuno, quella sera, parlò più del presepe. Sua moglie lo pregò solo di non aprire il negozio la mattina della Vigilia, perché lei aveva bisogno di una mano per organizzare il cenone per la sera. Lui sbuffò, ma sapeva di non poter replicare.

Il pomeriggio della Vigilia, quando ormai l’episodio del presepe era solo un ricordo sbiadito, Carlo li chiamò al telefono.

«Sono preoccupato», disse «oggi la Sonia è stata al parco con le bimbe e la nostra Ambra è sparita. Non si trova più da nessuna parte, non so cosa fare!»

La Morena iniziò a piangere, a disegnare sopra le loro teste scenari apocalittici e a parlare male della Sonia, che era troppo al cellulare quando portava a spasso le figlie.

Si trovarono in piazza.

«Era sullo scivolo con sua sorella», disse la Sonia tra le lacrime «mi sono girata un attimo e ce n’era solo una…»

Poi prese per un braccio la povera Milena, che guardava la madre spaventata.

«E tu, possibile che non mi vuoi dire dove sia tua sorella?»

La bambina non ne voleva sapere di parlare. Quando la madre si fu calmata riuscì a dire: «Ha detto che andava a vedere il presepe e che doveva parlare con Ernesto».

«E chi diavolo è Ernesto?», chiese Carlo.

Un capannello di gente, intanto, si era radunato per aiutarli a capire cosa fosse successo.

«L’uomo del carretto», spiegò Giovanni.

La Morena alzò gli occhi al cielo.

«Ci manca anche questa, Giovanni. Quando imparerai a fare il serio? Si è persa tua nipote».

Ancora una volta lui si sentì così cretino, che mentre gli altri discutevano e si dividevano le zone, e nessuno faceva caso a lui, decise di allontanarsi e recarsi nella zona del presepe.

Forse avevano ragione loro, stava diventando uno di quei vecchi rimbambiti che lui stesso prendeva in giro quando entravano in negozio.

Passò accanto a Giuseppe e Maria e si tolse il cappello.

«Io non è che ho tanta fede», disse «ma vi pare il caso di far prendere questi colpi la notte di Natale?»

Ovviamente, non ci fu nessuna risposta.

«Scemo io che parlo con le statue di un presepe», brontolò Giovanni. Si mise a dare calci ai sassi, mentre sentiva da lontano le voci dei compaesani che chiamavano Ambra.

Passeggiò senza meta, ricordando i natali della sua infanzia, quando aiutava anche lui a fare il presepe e la Vigilia ci si ritrovava tutti davanti al fuoco, a cantare.

Non si sentiva agitato, in qualche modo sapeva che la sua nipotina era al sicuro.

Quando passò accanto all’uomo del carretto, si fermò. Non era più voluto andare in quel punto da quella sera in cui, qualche giorno prima, quel pupazzo aveva cambiato la direzione dello sguardo.

«E così ti chiami Ernesto», scherzò, preso dal nervoso «almeno a sentire Ambra. A proposito, tu l’hai vista?»

Silenzio.

Giovanni sbuffò.

«E io vinco il premio per il miglior bambo dell’anno», si disse.

Il solito ciocco di legno cadde dal carretto.

«Deve essere una nuova funzione escogitata da quei burloni dei miei compaesani», fece Giovanni, parlando sempre ad alta voce.

Si chinò come qualche sera prima, mise la legna al suo posto e per poco non prese un colpo quando vide che il pupazzo aveva alzato un braccio e indicava con il dito un punto preciso tra i sassi e il bosco.

«Io mi fido», disse Giovanni «ma giuro che se mi stai prendendo in giro, quando torno te lo stacco, quel finto braccio».

Si mise a correre nella direzione indicata dal pupazzo.

Più si avvicinava al bosco, più gli pareva di sentire il pianto di una bambina.

E infatti Ambra era stesa a terra, ferita a una gamba e si lamentava. Tremava per il gelo e per la paura.

«Nonno!», esclamò.

«Ambra, tesoro, cosa è successo?»

«Volevo andare a vedere il presepe, mi sono allontanata dalla mamma, non dovevo, scusa».

Ambra piangeva. Il nonno la avvolse nel suo giaccone.

«Ma come sei arrivata fino a qui?»

Lei serrò le labbra.

«Tanto non mi crederebbe nessuno».

«Forse il tuo nonno rimbambito sì».

Lei sorrise.

«Ho seguito un cerbiatto. Qualcuno ha cercato di trattenermi, ma io sono stata sciocca e non mi sono lasciata convincere a restare. Sono caduta e ho sbattuto la testa».

«Chi ti ha trattenuta?»

«Ernesto».

«Sempre lui», mormorò il nonno.

«Guarda», fece la bambina. Le mancava un pezzetto della giacca.

«Ha provato a fermarmi, diceva che ti saresti preoccupato. E si è preso un pezzo della mia giacca».

«Ernesto…», ripetè Giovanni.

Solo in quel momento gli venne in mente che quando era piccolo e dava una mano a costruire il presepe, gli capitava di attardarsi in mezzo ai personaggi immobili, quando non c’era più nessuno e chiacchierare con un certo Ernesto.

Un personaggio che teneva la legna sulle spalle.

Aveva gli stessi occhi simpatici dell’uomo del carretto.

«Era lui!», esclamò, da solo.

Tutta la famiglia li raggiunse.

Nessuno sgridò Ambra; erano solo contenti che non si fosse fatta nulla di grave, anche se avrebbero chiamato i soccorsi per esserne certi.

«Io vado a ringraziare Ernesto», fece Giovanni, dando un bacio sulla fronte a sua moglie.

«Chi?»

«Un suo vecchio amico», spiegò Ambra.

Giovanni vide che il pupazzo ora teneva saldo il carretto e guardava davanti a sé. In mezzo alla legna c’era il pezzo della giacchetta di Ambra.

«Grazie, amico mio», disse Giovanni «passano gli anni, tu sei salito di grado: ora guidi un carretto. Ma in fondo, siamo sempre gli stessi piscen di una volta. Come sempre: Buon Natale!»

Ernesto gli fece l’occhiolino, almeno così parve a Giovanni. Ma questo, lui decise di non dirlo a nessuno.

Silvia Montemurro

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