Perché la scuola non è una gara

Raffaele Mantegazza Un pedagogista interviene nel dibattito sul merito nato dal nuovo nome del ministero dell’Istruzione. Bisogna rimuovere gli ostacoli socio-economici che frenano chi vale, non istigare alla competizione

Perché la scuola non è una gara
Una scena di “Non uno di meno” (1999) di Zhang Yimou, film che ha dato il titolo anche a diversi progetti contro la dispersione scolastica

“Merito”. Raramente una singola parola ha causato un dibattito così acceso come questo termine di sei lettere ha fatto nelle ultime settimane. La scelta del nuovo governo di denominare il Ministero che si occupa della scuola “Ministero dell’istruzione e del merito” ha suscitato comprensibili polemiche. Certo sarebbe stato molto più coerente con i dettami della Costituzione chiamarlo “Ministero del Diritto allo studio”, ma proviamo comunque ad affrontare la questione in termini pedagogici senza cadere nella tentazione di una banale strumentalizzazione politica. Partiamo dalla Costituzione Italiana che nell’articolo 34 recita: “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze”. È del tutto evidente che in questo caso non si sta parlando di premiare il merito, dando un riconoscimento a qualcuno come se si trattasse di una medaglia in una gara, ma di intervenire per eliminare gli ostacoli che le differenze economiche e sociali potrebbero porre sulla strada dell’accesso al diritto allo studio, come del resto l’articolo 3 impone per ogni diritto fondamentale del cittadino. La cosa importante da ricordare è che per la Costituzione lo studio e la cultura non sono un premio ma sono un diritto di tutti e di tutte. Non si dice che l’istruzione è solo per i meritevoli, ma che i meritevoli che hanno problemi di ordine economico e sociale non possono per questo esserne esclusi.

Occorre però andare più a fondo nella questione e capire che cosa significa quel “capaci e meritevoli”. Che cosa è il merito? È possibile misurarlo? A meno di non cadere in una retorica moralistica che prende in considerazione un’idea astratta come quella dell’impegno (la frase fumosa “vedo che ti sei impegnato”) il rischio è quello di intendere il merito a scuola come capacità misurabile di adeguarsi a regole imposte dall’esterno, escludendo i percorsi più originali, indipendenti e critici. Il tutto vale in particolare se applicato alla valutazione; chi ha detto che un alunno che ha tutti dieci in pagella sia più meritevole di uno che ha qualche cinque e tutti sei, se il secondo parte da condizioni difficili e ha dovuto operare un enorme sforzo per conseguire il risultato? E come è possibile affermare che un voto misura il merito, quando invece è solo la conclusione di un percorso complesso fatto di apprendimento e di verifica, che tiene sempre al suo interno tutte le variabili di una storia fatta da persone? Il rischio è di tornare a intendere i voti come istigazioni alla competizione tra i ragazzi, come se vi fosse davvero qualcuno che merita la cultura e qualcun altro che ne deve essere escluso, come per una punizione.

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