Perché la scuola non è una gara

Raffaele Mantegazza Un pedagogista interviene nel dibattito sul merito nato dal nuovo nome del ministero dell’Istruzione. Bisogna rimuovere gli ostacoli socio-economici che frenano chi vale, non istigare alla competizione

“Merito”. Raramente una singola parola ha causato un dibattito così acceso come questo termine di sei lettere ha fatto nelle ultime settimane. La scelta del nuovo governo di denominare il Ministero che si occupa della scuola “Ministero dell’istruzione e del merito” ha suscitato comprensibili polemiche. Certo sarebbe stato molto più coerente con i dettami della Costituzione chiamarlo “Ministero del Diritto allo studio”, ma proviamo comunque ad affrontare la questione in termini pedagogici senza cadere nella tentazione di una banale strumentalizzazione politica. Partiamo dalla Costituzione Italiana che nell’articolo 34 recita: “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze”. È del tutto evidente che in questo caso non si sta parlando di premiare il merito, dando un riconoscimento a qualcuno come se si trattasse di una medaglia in una gara, ma di intervenire per eliminare gli ostacoli che le differenze economiche e sociali potrebbero porre sulla strada dell’accesso al diritto allo studio, come del resto l’articolo 3 impone per ogni diritto fondamentale del cittadino. La cosa importante da ricordare è che per la Costituzione lo studio e la cultura non sono un premio ma sono un diritto di tutti e di tutte. Non si dice che l’istruzione è solo per i meritevoli, ma che i meritevoli che hanno problemi di ordine economico e sociale non possono per questo esserne esclusi.

Occorre però andare più a fondo nella questione e capire che cosa significa quel “capaci e meritevoli”. Che cosa è il merito? È possibile misurarlo? A meno di non cadere in una retorica moralistica che prende in considerazione un’idea astratta come quella dell’impegno (la frase fumosa “vedo che ti sei impegnato”) il rischio è quello di intendere il merito a scuola come capacità misurabile di adeguarsi a regole imposte dall’esterno, escludendo i percorsi più originali, indipendenti e critici. Il tutto vale in particolare se applicato alla valutazione; chi ha detto che un alunno che ha tutti dieci in pagella sia più meritevole di uno che ha qualche cinque e tutti sei, se il secondo parte da condizioni difficili e ha dovuto operare un enorme sforzo per conseguire il risultato? E come è possibile affermare che un voto misura il merito, quando invece è solo la conclusione di un percorso complesso fatto di apprendimento e di verifica, che tiene sempre al suo interno tutte le variabili di una storia fatta da persone? Il rischio è di tornare a intendere i voti come istigazioni alla competizione tra i ragazzi, come se vi fosse davvero qualcuno che merita la cultura e qualcun altro che ne deve essere escluso, come per una punizione.

Diritti e premi

E come è possibile pensare di misurare tutto questo? Insegnare ai ragazzi non significa mettere una bandierina in cima a una vetta e premiare solo chi la conquista per primo; questa concezione è del tutto estranea alla scuola. L’insegnamento consiste nel mettere i ragazzi nella condizione di contribuire tutti insieme (nessuno e nessuna esclusa) a raggiungere la bandierina; per cui, se il risultato è ottenuto, tutti sono meritevoli perché ciascuno ha dato il suo contributo a partire dalle sue capacità e dalle sue risorse. Pensare che esistano alunni “più meritevoli” di altri rischia di trasformare il diritto allo studio in una specie di premio per i “migliori” (che spesso sono confusi con i più adattabili, quelli che non pongono domande critiche, che non mettono in discussione le regole).

Purtroppo questa concezione meritocratica non ha l’effetto di livellare le differenze, ma al contrario di imporre criteri di giudizio rispetto al merito che non solo non hanno alcuna giustificazione scientifica ma, peggio, si affidano solamente a ciò che è quantificabile (i test a crocette, le prove Invalsi); in questo modo si seleziona a monte ciò che dovrebbe essere il merito e se ne esclude la creatività, la passione, il pensiero divergente, la fantasia. Che tra l’altro non hanno bisogno di essere “premiate” ma semmai di trovare un terreno su cui attecchire e crescere. Dietro la retorica del merito, se non è sostenuta dall’idea che lo studio è un diritto per tutti e tutte, c’è l’ideologia del premio e della punizione, come se la scuola fosse una specie di trofeo in palio che può essere conquistato solo da chi se lo merita.

Crescere insieme

Mettere tutti i ragazzi in condizione di accedere al diritto allo studio (ricordiamo l’altissima percentuale di studenti che non hanno potuto usufruire della didattica a distanza perché privi di connessione. Chi si occupa di loro? E se saranno demotivati allo studio qualcuno avrà il coraggio di definirli “poco meritevoli”?) è ciò che deve fare un Ministero in una democrazia, e in tutto questo il merito non c’entra nulla. C’entra l’idea di una scuola di tutti e per tutti, nella quale collaborare e crescere insieme. Una scuola che non usa l’ideologia del merito come strumento di divisione, una scuola che certamente si merita molta più attenzione da parte della nostra classe politica.

*professore di Pedagogia interculturale al dipartimento di Scienze umane dell’Università di Milano-Bicocca.Si occupa di formazione di insegnanti, educatori, medici, infermieri, genitori e di altre figure professionali legate alla cura e all’educazione. Ha pubblicato una cinquantina libri su tematiche educative. Tra gli altri: “Di mondo in mondo. Tracce educative nella Commedia di Dante”(Castelvecchi, 2013), “Troverete un bambino. Una lettura pedagogica dei Vangeli apocrifi dell’infanzia” (Lapislazzuli, 2015) e “Narrare l’inizio. Gravidanza, parto, nascita tra natura e culture” (Castelvecchi, 2017).

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