Quel 1848 fondativo dell’Europa moderna

Il direttore di Fondazione Brescia Musei Stefano Karadjov: «Nel nostro museo “Leonessa d’Italia”, da poco inaugurato, ci si immerge in un’epoca che portò una rivoluzione culturale e che va sottratta alla retorica»

Pietro Berra

Nel mese di marzo di 175 anni fa accadde “un quarantotto”, anzi “il Quarantotto”, da cui è nato il modo di dire. E fu una cosa bella e importante: la “Primavera dei popoli” è alla base dell’Europa di oggi, che non sarà perfetta, ma di sicuro è fatta di persone e nazioni libere. O che lottano per mantenere la propria libertà.

In Svizzera si stanno già preparando a celebrare l’anniversario, perché nel mese di settembre del 1848 maturò e fu promulgata la Costituzione federale, da noi invece rischia di passare sottotraccia. Un bel segnale, però, arriva da Brescia, che di recente ha inaugurato l’anno da capitale della cultura italiana (assieme a Bergamo) riaprendo con un allestimento totalmente rinnovato il Museo del Risorgimento “Leonessa d’Italia”, che era stato tra i primi nel suo genere a vedere la luce nel 1893 e dopo tante traversie aveva chiuso i battenti nel 2015 per problemi strutturali. Con il direttore di Fondazione Brescia Musei, Stefano Karadjov, parliamo di quanto fu determinante il biennio 1848-1849, segnato da moti davvero di popolo, che non riuscirono nell’intento di liberare la Lombardia dalla dittatura austriaca, ma generarono un cambiamento di coscienze e di costumi forse più importante rispetto alle Guerre di indipendenza successive, combattute per lo più da un esercito regolare sotto le insegne di Casa Savoia. Altrettanto importante è saper raccontare quell’epopea straordinaria, sottraendola alla polvere della retorica bellicista.

Giancarlo De Cataldo, che nel Risorgimento ha ambientato più di un romanzo ed è coautore della sceneggiatura del film “Noi credevamo”, dice che all’estero, e quindi anche per il cinema e piattaforme come Netflix e Amazon Prime, l’Italia è solo antichi romani e Rinascimento. Il Risorgimento non merita un interesse internazionale o piuttosto va raccontato diversamente affinché lo susciti?

Posso dire che i risorgimenti degli altri popoli, all’estero, sono molto considerati, anche se e non si chiamano, ovviamente, “Risorgimento” come il nostro. Per gli altri sono le rivoluzioni dell’Ottocento: un momento straordinario sotto ogni profilo. L’Europa moderna si è fatta allora. Dopo la Restaurazione, agiscono le “Primavere dei popoli” che portano nell’ultima parte del XIX secolo a definire il Vecchio Continente come lo conosciamo ora. Anche dal punto di vista culturale nasce tutto quello che “siamo” noi oggi: l’opera, l’operetta, i romanzi popolari che diffondono la lettura, le “affiche” che sfociano nella nona arte, la fotografia che nasce alla metà dell’Ottocento e il cinema alla fine del secolo. Attorno al libro, che già esisteva, si sviluppa l’industria culturale: lo racconta bene Donald Sassoon nel saggio “La cultura degli europei. Dal 1800 a oggi” (Rizzoli, 2011). Anche l’arte che siamo più abituati a vedere e apprezzare è tutta ottocentesca: impressionismo, simbolismo, preavanguardie. Insomma, fu un secolo fertilissimo da tutti i punti vidi vista e bisogna trovare un modo adeguato per raccontarlo.

Si può partire, per esempio, dal dire chi si cela dietro i nomi delle strade da cui passiamo tutti i giorni. Voi avete dedicato un’installazione interattiva proprio al “Risorgimento nella toponomastica”: può offrire spunti per raccontare anche personaggi dimenticati e ancora attuali?

Abbiamo creato un’installazione che rende l’idea di quanto sia radicata la storia del Risorgimento nel nostro quotidiano urbanistico. Via dei Mille, piazza Garibaldi, largo Cavour... il Risorgimento è celebrato dappertutto e per vari motivi. Dal punto di vista urbanistico, per esempio, si sono trasformate in quegli anni le nostre città, sventrando quartieri malsani e allargandole verso le periferie. Nella nostra postazione multimediale si sceglie il nome di un personaggio e si scopre dove si trovano i luoghi pubblici a lui dedicati. I protagonisti, da Silvio Pellico a Tito Speri, parlano al pubblico attraverso i loro testi letti da attori, che li interpretano in modo contemporaneo. Come uno spettacolo teatrale.

Voi avete valorizzato anche il ruolo delle donne nel Risorgimento. Pochi, per esempio, ricordano che una patriota comasca, Giuseppina Bonizzoni, finì al processo di Belfiore con il ben più celebre eroe bresciano Tito Speri...

È doveroso raccontare il ruolo fondamentale delle donne. Nella Resistenza è acquisito, nel Risorgimento invece è stato sempre poco trattato. Abbiamo voluto restituire la voce alle donne bresciane, in particolare, prendendole come caso paradigmatico. Nelle nostre “Prove di Risorgimento”, il laboratorio teatrale da noi realizzato con il Centro teatrale bresciano e la scuola del Piccolo di Milano diretta da Luca Ronconi, sono stati affidati ad attori professionisti - come Gioele Dix, Maria Paiato e Daniele Squassina - e a giovani studenti dell’Accademia, sia testi letterari sia documenti autografi o ricostruzioni attendibili delle dichiarazioni di questi eroi ed eroine. A me è molto cara Felicita Bevilacqua La Masa, che da giovanissima a Brescia curò con la madre i feriti della Prima guerra di indipendenza, e poi si legò a Venezia, dove le è stato dedicato uno spazio museale in piazza San Marco. Questi personaggi, nel nostro museo, li vedi sul monitor e, sollevando una specie di cornetta, parlano con te come se fossero lì.

Le Dieci Giornate di Brescia del 1849 furono un’impresa eroica ma non vittoriosa, almeno nell’immediato. Il Risorgimento ci insegna anche l’importanza di certe sconfitte?

Pensi che le Dieci Giornate furono rievocate più di cento anni dopo, nel maggio del 1974, dal sindaco Bruno Boni, durante i funerali dei martiri dell’attentato di piazza Della Loggia. Nel momento più drammatico e fondativo della comunità bresciana contemporanea, lo spirito delle Dieci Giornate è stato portato come esempio di coesione della cittadinanza da cui ripartire, evitando risposte violente intestine. Brescia, infatti, in quei giorni era dilaniata da diverse fazioni. Fu un invito, riuscito, a trovare l’unità civica contro un nemico esterno, per provare a risolvere il problema alla radice. Un fatto che la dice lunga su quanto le Dieci Giornate siano presenti nella storia di questa città...

Come le avete rievocate al museo?

Con un’installazione immersiva di grande suggestione. Si entra in un box dove si possono vedere le cronache delle Dieci Giornate con proiezioni sugli schermi e sonorizzazioni. Le immagini tratte da fonti storiche vanno a creare un palinsesto visivo. Fa da contraltare la visione di quattro opere del pittore Faustino Joli, che mostrano la città colpita dalla repressione austriaca in quattro giorni diversi. Il tutto accompagnato da infografiche, che sono il codice delle nostre sezioni museali. Invitiamo i visitatori a leggere il “fenomeno Risorgimento” attraverso il “datatelling”: ogni sezione mostra svariati numeri chiave, a partire dagli oltre 300 morti delle Dieci Giornate.

Nel 1859 Brescia divenne una “città ospedale”, dopo le sanguinose battaglie di Solferino e San Martino. Proprio allora nacque in Dunant l’intuizione della futura Croce Rossa Internazionale...

Rispetto a quell’episodio decisivo del 1859, conserviamo un bellissimo album di velluto con lamina in argento, e con simboli delle città di Torino e di Brescia, in cui sono raccolti tutti i messaggi che le madri, le spose e le promesse spose piemontesi scrissero alle donne bresciane, che più di tutte si erano adoperate per curare i loro cari colpiti in battaglia. Sull’aspetto del soccorso ai feriti di tutti gli schieramenti, è interessante anche la divisa del generale Johan Nugent che abbiamo esposto: si tratta di un austriaco che, ferito e catturato a Brescia durante le Dieci Giornate, fu curato al meglio possibile e alla fine donò un ingente lascito alla città in ricordo dell’azione compassionevole di cui era stato beneficiario.

Il Risorgimento è tutto questo eppure a scuola di solito non appassiona, perché non si fa oltre la sfilza di battaglie e la retorica patriottica...

Un po’ come accade al povero Dante... Sono d’accordo: una grande retorica connota l’insegnamento di quell’epoca a scuola e in parte è anche comprensibile, perché una trattazione retorica di questo tipo serviva a fare gli italiani nei decenni in cui il Risorgimento era incompiuto. Il risultato, effettivamente, è che agli studenti appare come qualcosa di lontano. Noi abbiamo lavorato su questo per cercare di avere un museo che coinvolga molto i giovani. Con quello che abbiamo raccontato, e con l’immersività, ci dovremmo essere riusciti. Il nostro vuole essere un museo moderno che parla della contemporaneità.

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