Comunicato Stampa: “Per fare Gauguin”: un memoir ironico e vivido sull’arte del tentare


"Per fare Gauguin" di Cesare Bornazzini , pubblicato dal Gruppo Albatros il Filo è molto più di un memoir: è un viaggio smaliziato e pieno di ironia. Il ritratto caotico e insieme irresistibile di un’epoca, raccontato con la voce inconfondibile di chi ha vissuto il sogno del cinema italiano non da protagonista assoluto, ma da testimone incantato e scanzonato , da “cinematografaro”, come Bornazzini ama definirsi con disarmante onestà. L’opera si colloca a metà strada tra l’autobiografia e la narrazione diaristica, con un tono che coniuga l’osservazione pungente alla malinconia, la battuta brillante al disincanto generoso di chi guarda alla propria giovinezza senza veli né mitizzazioni. In questo senso, il titolo stesso è una dichiarazione d’intenti: non “essere” Gauguin, ma provare a farlo , giocarsi la vita per un ideale artistico che sfugge sempre un po’ più in là , lasciandosi però dietro il segno del suo passaggio.
La struttura episodica del libro, priva di una trama strettamente lineare, segue il flusso naturale del ricordo , saltando da un aneddoto all’altro con la leggerezza e la coerenza che solo una voce autentica può garantire. Il lettore viene trascinato nel turbine degli anni Settanta e Ottanta attraverso le vicissitudini del giovane Bornazzini: farmacista laureato con scarse convinzioni, convertito alla causa del cinema non per chiamata divina, ma per infezione cinefila assorbita nei collegi dell’Emilia profonda, tra cineforum impegnati e fughe notturne per andare in sala.
Curiosa e ben riuscita è l’equilibrata alternanza tra il microcosmo padano e il macrocosmo romano , tra Codigoro e Roma, con le sue rovine, i teatri di posa e le squallide pensioni. Lo sguardo dell’autore riesce a cogliere il grottesco e il sublime con entusiasmo un po’ goffo e completamente umano. Dalla Rotonda dei primi amori ferraresi alla DEAR, dove incrocia Mastroianni e Monica Vitti, tutto è raccontato con una capacità narrativa acuta, autoironica e sorprendentemente letteraria , capace di dare ritmo e corpo anche agli episodi più apparentemente marginali.
Bornazzini si dimostra un narratore di livello, capace di rendere straordinario il quotidiano e di lasciare il lettore col sorriso e una punta di malinconia. Non c’è artificio nel suo raccontare: tutto è vero, oppure almeno sentito come vero , e questo basta. La sua penna affonda nei dettagli di un’epoca, nei tic, nei gesti, nelle voci, nei silenzi e nelle sigarette accese nei momenti sbagliati. I personaggi che incrocia sono ritratti vivi, sfaccettati, irresistibili , che sfuggono al rischio della macchietta grazie a un’osservazione sempre rispettosa, persino nella sua curiosità.
Molto significativo è il tono affettivo ma mai sdolcinato con cui l’autore ricostruisce il proprio apprendistato: un’educazione sentimentale e cinematografica fatta di porte chiuse in faccia, telefonate ignorate, set vissuti di notte e sceneggiature scritte nella solitudine di un lido deserto . La nostalgia è presente, ma sempre temperata dall’ironia , come se Bornazzini sapesse bene che il vero privilegio non era “sfondare”, ma esserci stato , avere sbirciato da dentro quel mondo dorato che, proprio perché così inafferrabile, è diventato mito.
Il cinema raccontato da Bornazzini non è mai mitizzato: è una macchina arrugginita e affascinante , abitata da personaggi contraddittori, meschini e geniali, spesso vanitosi, talvolta capaci di lampi di autentica grandezza. L’ammirazione per certi protagonisti (Marcello Mastroianni, Shelley Winters, Carlo Di Palma) convive con il disincanto verso i meccanismi produttivi , le raccomandazioni, le gerarchie fluide e spesso ridicole che regolano i set. Eppure, non c’è rancore in queste pagine. Bornazzini guarda a tutto con una certa indulgenza, come a dire che l a mediocrità fa parte dell’impasto umano , e che anche in mezzo alla mediocrità può sbocciare — per un attimo — la poesia del gesto artistico .
Un aspetto particolarmente interessante del libro è il filo che attraversa la relazione con Catherine, la hostess francese che si distingue per il suo charme e per un accento marcato che l’autore ricorda con un misto di imbarazzo e fascinazione. Più che per la dinamica sentimentale in sé, questo passaggio si rivela rivelatore per ciò che lascia emergere del protagonista: la sua timidezza ostinata, la tendenza a calcolare ogni gesto senza poi compierlo, la distanza tra immaginazione e realtà che attraversa tutto il libro. Catherine diventa quasi una figura simbolica, uno specchio silenzioso delle aspettative frustrate, delle goffaggini affettive, dei tentativi di controllo emotivo che puntualmente sfumano nella delusione. Il tono resta leggero, eppure attraverso questo racconto emerge una malinconia autentica , quella di chi comprende, solo dopo, ciò che avrebbe potuto dire o fare. Il non detto, le esitazioni, le strategie che non portano a nulla, sono parte dello stesso meccanismo narrativo che governa anche gli altri episodi dell’opera. In questo senso, Catherine non è che una delle tante occasioni mancate che Bornazzini guarda con indulgenza, trasformando la rinuncia in racconto e l’imbarazzo in materia narrativa .
Il tono della narrazione è sempre godibile, anche quando l’argomento si fa più amaro. C’è qualcosa di profondamente umano nel modo in cui Bornazzini racconta i suoi piccoli successi e i suoi grandi rifiuti , come l’episodio della sceneggiatura rifiutata da Monica Vitti. Anche nei momenti di maggiore frustrazione, il protagonista-autore non perde mai la capacità di ridere di sé, e questo salva il testo da ogni forma di autocompianto o di vittimismo.
"Per fare Gauguin" è anche, in controluce, un romanzo di formazione mascherato da memoir , in cui il vero percorso è quello interiore: il passaggio dall’illusione alla consapevolezza, dall’ambizione cieca alla comprensione che la vita non è un film da girare ma da abitare, scena dopo scena, anche quelle più banali . Alla fine, Bornazzini non diventa un grande regista, ma forse qualcosa di più raro: uno straordinario narratore della propria traiettoria , capace di offrire ai lettori una testimonianza preziosa, lucida e divertente su cosa significhi inseguire un sogno, perderlo e continuare comunque a raccontarlo con amore.
L'autenticità è la cifra quest’opera. Il linguaggio è diretto, colloquiale, a tratti volutamente trasandato, ma sempre sostenuto da una notevole intelligenza narrativa . Si ride spesso, eppure non si tratta mai di risate gratuite: ogni sorriso porta con sé la consapevolezza di una perdita, di una disillusione, di una malinconia trattenuta . In questo senso, il libro è una dichiarazione d’amore non solo al cinema, ma anche alla libertà di sbagliare , di tentare, di esistere fuori dai binari.
Bornazzini, nel suo oscillare continuo tra l’incapacità di prendersi sul serio e il bisogno disperato di essere preso sul serio , ci restituisce una voce sincera , capace di raccontare l’Italia e il cinema di quegli anni con una leggerezza che è frutto di intelligenza e memoria viva. Nessuna scena viene calcata, nessuna figura viene santificata o demonizzata. Tutto è restituito con uno sguardo disincantato e partecipe insieme , e questo rende il libro prezioso non solo per chi ama il cinema, ma per chi ama le storie ben raccontate, quelle che nascono da dentro e parlano con il tono esatto della verità.
"Per fare Gauguin" è, in definitiva, un libro sulla dignità del tentativo , sull’importanza di provare anche quando si sa di non potercela fare, sulla forza del racconto come ultimo rifugio della memoria. E Cesare Bornazzini, nel narrare il suo viaggio incompiuto nel cinema italiano, firma un’opera che racconta tutto quello che avrebbe voluto essere, ma che, paradossalmente, solo scrivendolo è riuscito davvero a diventare.

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