Comunicato Stampa: "Storia di ieri", un maestro tra i monti ci insegna che istruire è prima di tutto ascoltare


In principio era il maestro . Non quello delle riforme ministeriali, delle pagelle elettroniche o delle riunioni sindacali. Era il maestro con la giacca lisa e la valigia di cartone, che saliva mulattiere e scendeva in silenzio tra i banchi, depositando parole come semi in un campo difficile. Era il Novecento, e in Italia il maestro era un ponte tra lo Stato e la montagna, tra la lingua della burocrazia e i dialetti dei contadini, tra la speranza e la fatica. “Storia di ieri” , il romanzo autobiografico di Luigi Rossi , pubblicato dal Gruppo Albatros il Filo , comincia da lì: da un ragazzo di vent’anni, Luigi, che nel 1936 viene mandato a insegnare a Rapegna , sperduto borgo dell’Appennino marchigiano, nel cuore degli anni del regime, ma lontanissimo dalla sua retorica. Non c’è ideologia qui, ma pane, neve, tradizioni e silenzio. Il libro, ritrovato postumo dalle figlie, è una capsula del tempo , un messaggio abbandonato nel mare della memoria. Luigi Rossi, nato a Matelica nel 1916, orfano giovanissimo, maestro per vocazione, poi filosofo e direttore didattico, ci consegna un’Italia scomparsa, ancora ruvida e sacra. Non scrive per essere letto, ma per ricordare. E nella sua voce sommessa c’è il canto di un’epoca in cui insegnare voleva dire, prima di tutto, imparare a essere umani .
Rapegna rappresenta il paesaggio mentale di chiunque abbia attraversato, anche solo con la lettura, l’ Italia minore . Riconosciamo l’Italia degli orti, dei muretti a secco, delle strade che non portano da nessuna parte se non al cuore stesso del vivere. Il paese dove Luigi viene mandato a insegnare è un topos letterario: l’infanzia della nazione, l’anima rurale prima della televisione, prima del boom e del cemento. Come i luoghi dell’“inattualità” pasoliniana o le colline di Pavese dove l’adolescenza si fonde con il mito, anche Rapegna è un paesaggio interiore . Le stagioni vi scorrono come nei calendari religiosi, i silenzi pesano più delle parole, e i gesti quotidiani diventano atti sacri. In questa geografia della lentezza e della fatica , Luigi impara il linguaggio della terra, della superstizione, della fame, ma anche della dignità.
Quando Luigi arriva a Rapegna, il suo titolo di “maestro” è più formale che reale. Porta con sé una valigia e un’educazione, ma è la montagna che lo forma davvero: non quella dei programmi scolastici, ma quella dei gesti lenti, delle parole centellinate, della stanchezza che sa di onestà. Potremmo dire che, per lui, le persone che incontrerà nel paese si trasformeranno presto in maestri travestiti da contadini. Luigi è un giovane uomo in cerca di un luogo dove essere guardato con fiducia e trova una comunità che non sa di dargli amore , ma lo fa con naturalezza.
A Rapegna, le scope non servono solo a spazzare: si incrociano davanti alla porta per tenere lontane le streghe. Le stelle cadenti non sono materia per astronomi, ma lacrime di Dio o presagi di morte. E il ceppo della vigilia di Natale non riscalda soltanto: difende la casa dalle ombre. In questo microcosmo anche la superstizione compone una grammatica simbolica . Luigi è colpito da quel modo poetico e pre-logico di ordinare l’incomprensibile, di rispondere al caos con gesti rituali, di affidare il dolore a racconti che diventano mitologia orale.
Nel mondo di Storia di ieri, il tempo sembra seguire un andamento tutto suo . È il tempo circolare dell’agricoltura, non quello lineare della città e della storia. A Rapegna non ci sono orologi da polso, ma il sole, la neve, il silenzio che cade tra un pasto e l’altro e ogni gesto è insieme necessità e rito. Non c’è differenza tra sopravvivenza e sacralità: la zappa diventa un’estensione della volontà, la pagnotta un oggetto quasi liturgico, la vendemmia una festa in cui il corpo si stanca e si celebra. Luigi, abituato a leggere libri, si ritrova a interpretare il senso delle zolle, del calore e dei calli. E il corpo poco allenato del giovane maestro entra prepotentemente in scena: suda, si affatica, si misura con la resistenza della terra e la saggezza dei contadini. Quando arriva la neve, tutto si ferma, tutto si prepara. Le feste sono squarci nel quotidiano, momenti in cui l’eterno entra nel presente. La campagna non ha vacanze, ha pause sacre. E Luigi, in quel ritmo, riscopre un tempo più profondo: quello della permanenza, e della gratitudine .
Lo stile dell'opera è, in apparenza, semplice. Ma quella semplicità è costruzione sapiente, scelta consapevole, misura. Luigi Rossi non era un romanziere di mestiere, ma un maestro e poi un filosofo: ogni frase del suo racconto è pervasa da un’aria di pudore, come se lo scrivere fosse un atto timido, quasi clandestino, e proprio per questo più sincero. Non c’è alcun compiacimento stilistico, nessuna ricerca di effetto: eppure l’effetto arriva. Rossi scrive come si parla quando si ha qualcosa da dire e non si teme di essere ascoltati troppo da vicino.
Il tono del libro è di una tenerezza inusuale per i nostri tempi narrativi, saturi di cinismo e di posture. Ma non si tratta di sentimentalismo: è tenerezza come categoria etica, come lente con cui guardare il mondo. Il tempo del racconto è quello della reminiscenza: si sente che Luigi scrive da un “dopo”, da un punto della vita in cui i ricordi non chiedono più giudizio ma solo presenza.
"Storia di ieri" è un manoscritto ritrovato , custodito in silenzio per molti anni. Le figlie di Luigi Rossi , nel recuperarlo e offrirlo al pubblico, r estituiscono la voce di un padre che, tra le pieghe della narrazione, si confessa con la discrezione tipica di chi ha vissuto più per gli altri che per sé. È come se il padre, scomparso nel 2006, avesse lasciato dietro di sé una lanterna accesa. E oggi, tra le pagine di questo libro, la luce arriva a noi: mite, ma insistente.
"Storia di ieri" è un libro che guarda indietro, ma parla avanti. In un tempo in cui la parola “connessione” ha sostituito la parola “vicinanza”, e l’algoritmo detta i ritmi dell’attenzione, Luigi Rossi ci consegna una parabola umana che ha il coraggio di rallentare. La lentezza non è solo nostalgia: è metodo. È attraverso il passo lento del carro, il gesto ripetuto della zappa, la zuppa che borbotta piano sul fuoco, che il protagonista, e con lui il lettore, riscopre il valore dei legami . Non c’è retorica nel racconto di Rossi, ma una lezione tanto più forte quanto più sussurrata: la vita ha senso solo se condivisa, se abitata con rispetto, se osservata da vicino.
In quell’anno di insegnamento tra le montagne, Luigi riesce a trovare la sua forma di umanità perduta , in una comunità che non lo ha scelto, ma lo ha accolto. È una storia di formazione, certo, ma anche una meditazione sul tempo, sulla cura, sull’ascolto.
In un’epoca che premia il rumore, "Storia di ieri" è silenzio che resta , è memoria che insegna. Non ci offre soluzioni, ma domande: cosa significa appartenere? Dove abita la felicità? E se il futuro fosse contenuto, ancora una volta, in un paese senza nome, in un maestro senza cattedra, in un gesto senza clamore?
Forse, allora, questa storia di ieri, proprio perché scritta con pudore e amore, è quella che oggi dovremmo tutti imparare a rileggere . A voce bassa, ma con attenzione.

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