CRV - ‘Il modo di Biagi - Dizionario della modernità del lavoro’ di Maurizio Sacconi

CRV - ‘Il modo di Biagi – Dizionario della modernità del lavoro’ di Maurizio Sacconi, per ricordare la figura del giuslavorista Marco Biagi, assassinato dalle Brigate Rosse

(Arv) Venezia 22 mar. 2022 - A palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio regionale del Veneto, è stato presentato il libro di Maurizio Sacconi, ‘Il modo di Biagi – Dizionario della modernità del lavoro’.

Il vicepresidente del Consiglio, Nicola Finco, ha introdotto l’autore affermando come “è un grande orgoglio per la nostra Assemblea legislativa averlo come ospite, data la sua lunga carriera parlamentare e i prestigiosi incarichi di governo che ha ricoperto, soprattutto nel mondo del lavoro e dell’impresa. A vent’anni dalla tragica scomparsa di Marco Biagi, nella sua opera Sacconi ne tratteggia la figura, attraverso una riflessione attenta sulle tematiche del mercato del lavoro che, peraltro, sono ancora di grande attualità perché Biagi già vent’anni fa aveva intuito cosa fosse necessario fare per dare ossigeno ai tessuti produttivi e al mercato del lavoro. Presentando oggi il volume, portiamo in seno a questa prestigiosa sede istituzionale, ma anche all’esterno, un messaggio molto importante: gli insegnamenti di Marco Biagi possono essere uno strumento prezioso per dare un futuro alle terre venete ma anche a tutta l’Italia. Credo soprattutto che il libro tratteggia un quadro molto efficace del profilo del giuslavorista, un’opera quindi molto utile per chi fa politica tutti i giorni”.

Il presidente del Consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, pur impossibilitato a essere oggi presente, ha voluto lasciare una personale riflessione. “L’on. Sacconi, con il suo libro ‘Il Modo di Biagi’, ci permette di ricordare la figura di Biagi, giuslavorista lungimirante e innovativo, assassinato a Bologna da un commando delle Brigate Rosse la sera del 19 marzo 2002. A 20 anni da quel tragico giorno, la lezione di Biagi è di straordinaria attualità e forza. Non è un caso, poi, se a parlarcene sia oggi Maurizio Sacconi, anche lui finito nel mirino dei brigatisti rossi: al pari di Biagi, anche Sacconi era ed è un rifomista autentico, non a parole ma con i fatti, un innovatore di garbo, che non ha mai cercato i riflettori ma ha sempre lavorato molto, e sodo, per i suoi ideali e per il bene del paese. Pochi giorni prima di morire, Biagi, intervenendo sul nodo della riforma del mercato del lavoro su cui aveva presentato, assieme a Sacconi, il suo ben noto libro bianco, scriveva nel Sole24 ore del 10 marzo 2002: ‘Si tratta di procedere ad una revisione totale della legislazione sul rapporto e sul mercato del lavoro, realizzando alla fine un testo unico che rappresenti per gli operatori uno strumento agile e chiaro di gestione di risorse umane. Lo Statuto dei lavori dovrebbe finalmente dare all’Italia nuove tecniche per regolare tutti i tipi di lavori, anche quelli più atipici, rivedendo vecchie norme non più in sintonia con la moderna organizzazione del lavoro e prevedendone delle nuove capaci di governare i mestieri emergenti nella società basata sulla conoscenza’. Bastano queste parole per capire quanto lungimirante fosse Biagi. Tornano alla mente, rileggendo i suoi articoli scritti negli ultimi mesi di vita, le parole di Carlo Maria Cipolla che ci ammonì spiegando come il declino economico possa essere improvviso e come dipenda da cause ben precise: all’inizio del Seicento gli stati della penisola italiana erano ancora tra i più ricchi del mondo. ‘Tre generazioni più tardi, l’Italia era un paese sottosviluppato, prevalentemente agricolo, importatore di manufatti ed esportatore di prodotti agricoli, dominato da una casta di possenti proprietari agrari che avevano ricacciato in secondo piano gli operatori mercantili, manifatturieri e finanziari. Il potere e il conservatorismo caratteristici delle corporazioni in Italia bloccarono i necessari mutamenti tecnologici e di qualità che avrebbero potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza straniera’, scrisse Cipolla, che poi individuò tre fattori fondamentali della crisi seicentesca: ‘salari non coerenti con la produttività del lavoro, un elevatissimo carico fiscale, un difetto di capacità imprenditoriale che impedì di cogliere i mutamenti nella domanda’. È impressionante vedere come queste rigidità si siano riproposte in questi ultimi vent’anni in Italia. Se l’Italia è nei guai, la colpa non è solo del suo gigantesco debito pubblico. L’altro grande problema del nostro Paese è rappresentato dalla bassa produttività, cioè la scarsa capacità di crescere. Più che il debito, è infatti la mancata crescita economica il ‘male oscuro’ che sta lentamente uccidendo l’Italia. Nella classifica mondiale del rapporto annuale ‘Doing Business’, siano stati esclusi dai primi 50 posti: l’esclusione dell’Italia dalla ‘top 50’ delle nazioni imprenditoriali si deve a molti fattori. Il nostro Paese, ad esempio, si piazza al 118° posto per quanto riguarda le tasse e in 112° posizione per le possibilità di accesso al credito. Male anche la gestione dei permessi di costruzione (104° posto) e il rispetto dei contratti (111°). Non parliamo poi dei tempi della Giustizia. L’Italia, inoltre, non solo è in coda tra i Paesi avanzati per percentuale di laureati, ma ha anche uno dei più allarmanti livelli mondiali di ‘disallineamento’ tra i percorsi di studio scelti dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro. Il nostro Paese soffre poi di spaventosi ritardi sul fronte dell’istruzione professionale e di politiche attive del lavoro per la formazione continua. I livelli salariali italiani, inoltre, legati a una struttura produttiva spesso a basso valore aggiunto, spingono molti brillanti laureati a espatriare, rendendo ancora più scarse le risorse professionali indispensabili all’economia. Non dico che Biagi avesse previsto tutto questo nel dettaglio ma molto, la massima parte, lo aveva intuito e aveva fatto il possibile per invertire la rotta e creare le condizioni ideali per affrontare le sfide della modernità attraverso un mercato del lavoro più agile. Fu assassinato per questo: aveva capito che bisognava abbattere vecchie mentalità, rendite di posizioni insostenibili, l’assenza della meritocrazia e l’appiattimento deleterio. E oggi un altro grande riformista autentico, come Maurizio Sacconi, con il suo ultimo libro, ci porta a riflettere, non solo su Biagi, ma sui nostri errori. E lo fa con la competenza di uomo che ha affrontato in prima linea momenti drammatici del Paese, dalla grande manovra del primo Governo Amato ai provvedimenti presi per salvare l’Italia all’indomani del crack del 2007”.

Maurizio Sacconi ha ricordato che “Biagi è stato il primo giuslavorista ad aver compreso la rivoluzione tecnologica in atto e quindi il tramonto della Seconda Rivoluzione Industriale, del Fordismo, della massificazione del lavoro, delle operazioni meccaniche e ripetitive, della catena produttiva e dell’operaio massificato. Biagi aveva intuito che si era conclusa un’epoca, caratterizzata da un forte rattrappimento del mercato del lavoro, con il numero di ore lavorate più basso d’Europa: pertanto, i lavoratori dovevano riacquistare un’identità, un volto, e le imprese una originalità che le distinguesse le une dalle altre. Il giuslavorista era sicuramente figlio della cultura europea, un comparatista, fermamente convinto che l’ambiente europeo fosse foriero di buone pratiche da poter mutuare. Ed è stato il vero padre del lavoro agile: mentre disegnava il Contratto a Progetto, pur continuandolo a chiamare lavoro subordinato, aveva già in testa il lavoro del futuro, svincolato da quegli elementi che lo avevano caratterizzato fino ad allora: spazio, ambiente e orario. Invece, si doveva iniziare a parlare di progettualità, obiettivi, risultati. Biagi ha riportato al centro la persona nella sua autonomia, capace di adattarsi ai cambiamenti del mercato del lavoro. Ha parlato di lavori ibridi, caratterizzati, da una parte da un forte coordinamento da parte del committente, dall’altra da una spiccata autonomia del prestatore d’opera. Biagi aveva aperto ai mercati transizionali del lavoro, caratterizzati da mansioni in continua evoluzione a cui bisognava rispondere con una strutturata offerta formativa. Il lavoro doveva entrare nei percorsi educativi perché era proprio l’esperienza del fare ad essere di per sé stessa educativa. Biagi era favorevole ai contratti di Apprendistato di Primo Livello, all’interazione tra scuola e lavoro. Propugnava, da uomo profondamente cattolico, la centralità della persona, e quindi anche la centralità dell’impresa, chiamata a essere punto di riferimento per la costruzione di percorsi formativi in grado di accompagnare le persone e dare loro strumenti idonei per poter passare da una competenza a un’altra. Il giuslavorista aveva compreso che la tutela garantita dall’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non poteva più essere efficace e che servivano quindi altre forme di protezione dei lavoratori, basate proprio sulla formazione continua e sulla prevenzione olistica degli infortuni sul lavoro, grazie a screening gratuiti, pagati dall’azienda e in ore lavorative, e all’educazione verso corretti stili di vita. Il modo di Biagi era innanzitutto un metodo. Il giuslavorista partiva dall’osservazione della realtà per portare avanti un lavoro di astrazione; quindi, tornava alla realtà per misurare l’efficacia di quanto prodotto, con un unico grande obiettivo: fare stare meglio le persone. Per questo, parlava di ‘Diritto vivente’ mettendo al centro la contrattazione territoriale, di prossimità, fatta da persone capaci di guardarsi negli occhi e di confrontarsi sui reali bisogni della società. E ricordo che il ricavato della vendita del libro andrà alla Fondazione ADAPT che gestisce una scuola di Dottorato, la quale a sua volta sostiene Borse di studio in materia di relazioni di lavoro”.

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