Abbiamo una malattia

Difficile - meglio: impossibile - proporre affermazioni scientifiche nel campo dei social network. Si va a pelle, come si dice, si commenta sulla base di rilevazioni empiriche. Ciò premesso, mi sento di dire che la reazione della comunità digitale alla strage di Manchester, se certo è stata come sempre sentita e per molti versi sincera, ha perduto qualcosa - non poco - del suo volume emotivo. Assuefazione? Rassegnazione? Forse il deserto delle parole ci ha finalmente raggiunto e nessuna delle frasi che salgono alla mente, non una delle maledizioni che il cuore produce, ci sembrano più adeguate, importanti, utili.

È sembrato stanco e debole perfino chi, rappresentante o simpatizzante di certi fronti ideologici, è passato all’incasso del solito voucher di paura e indignazione per metterlo a frutto della sua politica di breve gittata. Forse anche costoro, almeno alcuni di loro, si rendono conto che siamo ben oltre gli slogan e e le illusioni che evocano le promesse di muri, di espulsioni, di barricate e bombardamenti.

Quello che abbiamo è un bel cancro mondiale, alimentato dall’ignoranza, incoraggiato dal fanatismo, sfruttato dalla geopolitica e dalla finanza, prodotto (anche) in conseguenza delle pratiche colonialiste di un tempo lontano e vicino, quando l’Occidente tagliava casualmente a fette i territori orientali, sovvertendo equilibri fondati su antichi rapporti tribali. Ce l’abbiamo e dobbiamo curarcelo con pazienza e intelligenza, consapevoli che i sentimenti di vendetta e odio - umani, quanto umani! - non risolveranno un bel niente. E consapevoli anche, spero, che l’infinita, esasperante, colluttazione tra “buonisti” e “cattivisti”, tra “accoglienti” e “respingenti” non è poi così centrale come sembra: è utile solo a chi la alimenta, da entrambe le parti, a scopo di audience. Abbiamo una malattia che si cura come le altre malattie: con sopportazione, stoicismo, sacrificio, raziocinio e, per chi crede, appellandosi all’infinito.

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