Com’è romantico quando suona la “loro” canzone!

Chiunque abbia avuto modo di vedere “The great hack”, il documentario sullo scandalo Facebook-Cambridge Analytica diffuso da Netflix, avrà probabilmente maturato una certa sfiducia nell’affidabilità delle moderne democrazie e, soprattutto, si sarà fatto qualche domanda circa la politica come arte della manipolazione.

Nel senso che “The great hack” annuncia come la manipolazione delle coscienze, esercitata dalla politica sui cittadini, non è più un’arte: è diventata una scienza. E come tale è in grado di predeterminare gli eventi: la mela di Newton cadde esattamente dove il grande fisico inglese previde dovesse cadere, le elezioni le vincerà il partito guidato da quell’algoritmo propagandistico che, nutrito della mole di dati personali da noi ogni giorno volontariamente riversati nei social, senza errore possibile muoverà i voti degli indecisi.

Potrà apparire meno grave che algoritmi simili vengano applicati anche in campi distanti dalla politica; terreni nei quali ci inoltriamo proprio per staccarci da questioni ad alto tenore stressante come quelle che riguardano personaggi del calibro - mastodontico - di Salvini, Conte, Capezzone e Peppa Pig (uno di questi è immaginario, non mi ricordo quale). È il caso della musica, leggera o classica, rock o hip hop, melodica o heavy: quella che preferite. O credete di preferire.

Il punto è proprio questo. Una piattaforma come Spotify - di cui, per esempio, il sottoscritto è cliente se non affezionato quantomeno assiduo - nello sforzo costante di offrire un servizio “migliore” o comunque più appetibile rispetto alle piattaforme concorrenti, ha creato un sistema di intelligenza artificiale, denominato “BaRT” (“Bandits for Recommendations as Treatments”), il cui compito è di personalizzare l’esperienza streaming di ogni singolo utente, arrivando a proporgli la musica che preferisce, che potrebbe preferire o che - e qui sta il nocciolo - quasi inevitabilmente finirà per preferire. 

Il sistema, per prima cosa, impara: annota quali brani abbiamo ascoltato e quante volte li abbiamo ascoltati, ma prende nota anche di quelli che non vogliamo ascoltare e di quelli appena “assaggiati” (un ascolto sotto i 30 secondi è registrato come un “pollice verso”) per proporre infine  selezioni “su misura”. Ma Spotify non si accontenta di valutare le scelte musicali dei singoli utenti: l’algoritmo è alimentato anche da opinioni, parole-chiave e discussioni raccolte ovunque nella Rete. Una massa di informazioni che ognuno di noi non potrebbe mai raccogliere da sé né tantomeno organizzare in modo che conduca a qualcosa di concreto. L’algoritmo può e lo fa.

Il rischio, se ancora vogliamo parlare di rischio, è che il libero arbitro ci venga sottratto  non solo in politica, ma anche in quegli ambiti in cui ci illudiamo di esercitare in santa pace il capriccio del gusto, l’estro dell’intima preferenza: tutto diventa invece recinto di predeterminazione scientifica. Non lontano è quindi il giorno in cui un innamorato, teneramente allacciato alla sua lei su una pista da ballo, finirà per sussurrarle: «Senti, cara? Suonano la loro canzone».

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