Fiori artificiali

Ai trumpettieri - leggasi: ai seguaci di Trump - l’idea non piacerà, ma molti condividono oggi l’opinione che il mandato (o i mandati) del nuovo presidente porteranno a una straordinaria fioritura delle arti. Non sarà forse lo stesso Trump a promuoverla, ma di certo ci penseranno i suoi oppositori tra i quali, come si sa, gli artisti abbondano: scrittori, registi, attori, cantanti, vignettisti.

Accadde durante gli anni di Margaret Thatcher e anche l’era reaganiana non fu tutta edonismo: l’album “Born in the Usa” di Bruce Springsteen uscì nel 1984, il film “Wall Street” di Oliver Stone nel 1987.

Canzoni di protesta, romanzi di denuncia, arte che si fa provocazione: da sempre le stagioni politiche controverse indirettamente incoraggiano le forme creative, almeno fino a quando non si trasformano in dittature vere e proprie e allora bisogna aspettare la fine della guerra civile per poter apprezzare il prodotto di tanta creatività. La partenza a ruote fumanti della presidenza Trump fa pensare che ne vedremo e nelle sentiremo delle belle: il regista Michael Moore, per esempio, ha già chiamato a raccolta «un esercito di comici» per distruggere Trump con l’arma del ridicolo.

Sospendendo ogni giudizio su Trump, una domanda pare comunque legittima: ma le arti, oggi, sono ancora un’arma? Le canzoni di Bob Dylan, cinquant’anni fa o giù di lì, circolavano grazie ai club e ai raduni ancor più che per merito dei dischi e lo stesso accadeva alle poesie di Ginsberg e ai film di Warhol. Raggiungevano le masse o anche solo un élite, ma dove arrivavano facevano presa. Molta più, credo, di quanto facciano canzoni che si scaricano da iTunes, film in streaming su Netflix e opere collocate in musei davanti ai quali fanno la fila pullman carichi di turisti.

Questo non vuol dire che la “fioritura” non ci sarà: probabilmente, però, dovremo accontentarci di fiori artificiali.

© RIPRODUZIONE RISERVATA