Fuori l’autore: ma guarda, è un robot

Se la chiusura dei teatri dovesse prolungarsi oltre le promesse («Riapertura il 27 marzo» ha assicurato il ministro Franceschini) non solo tanti operatori del settore - artisti, tecnici, artigiani - finiranno in grande difficoltà, c’è perfino il rischio che noi spettatori troveremo in scena drammi e commedie scritti da robot invece che da umani.

Per fortuna non c’è mai da dubitare delle promesse di un politico, altrimenti lo scenario di cui sopra sarebbe piuttosto realistico. Di fatto, un dramma scritto da un robot già esiste: si intitola “AI: quando un robot scrive un dramma”. Durata della produzione, 60 minuti (poi finiscono le batterie?) e, secondo il drammaturgo David Kostak che ha fatto da supervisore al progetto, si tratta di una sorta di “Piccolo principe” in cui il robot del titolo se ne va per il mondo cercando di imparare qualcosa sulla società, sulle emozioni umane e perfino sulla morte.

Il tutto scritto da un sistema di intelligenza artificiale chiamato GPT-2, creato dalla società OpenAI il cui proprietario è il famoso Elon Musk. Non si tratta del primo sforzo letterario prodotto da un sistema di intelligenza artificiale: in passato questi complessi elaboratori si sono dimostrati in grado di produrre “fake news” (un articolo di cui c’è tale scarsità che pare giusto affidarne la produzione a instancabili robot), racconti brevi e poemi. È la prima volta però che dall’informatica scaturisce un testo complesso, con personaggi, dialoghi, situazioni psicologiche, colpi di scena e tutto il necessario per emozionare il pubblico.

Beh, tutto magari no, visto che per ammissione degli stessi responsabili del progetto il dramma «non è esattamente al livello di Shakespeare». I problemi? Bazzecole: «Dopo qualche frase - riferisce la rivista “Science” - il programma inizia a scrivere cose che non seguono una trama logica, oppure propone affermazioni in aperta contraddizione con altri passaggi del testo». Per esempio, GPT-2 spesso dimentica che il personaggio principale è un robot e non un umano, oppure a metà di un dialogo trasforma un uomo in una donna o viceversa. Questo, spiegano i tecnici, «è dovuto al fatto che il sistema non conosce veramente il significato delle parole, si limita a scrivere termini che, secondo probabilità, stanno bene insieme». Un pasticcio tale che per poter rendere il dramma rappresentabile in palcoscenico è stato necessario l’intervento umano: «Ma per non più del 10 per cento del testo - assicurano i tecnici -, tutto il resto è opera del sistema».

Sistema che per stessa ammissione di chi lo ha programmato «non conosce il significato delle parole». Ma non è questo forse il presupposto della scrittura? Che cosa penseremmo di un matematico che guardasse un’equazione con la perplessità di un tricheco davanti a un carburatore? Non solo uno scrittore dovrebbe conoscere il significato delle parole, ma dovrebbe anche essere in grado di sfidarlo, spingerlo al paradosso, lanciarlo in aria e farlo tornare a terra per mostrarne e tutti il peso e la consistenza.

Il problema è che le parole “intelligenza” e “artificiale” messe insieme hanno per noi un fascino irresistibile. Difficile da spiegare per noi. Impossibile per un robot il quale, da commediografo, ha un solo vantaggio: non sapendo cosa vuol dire “stroncatura” non rischia di adombrarsene.

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