Il male nella banalità: oltre i serial killer televisivi

Se i serial killer non esistessero, bisognerebbe inventarli. Calma. Rifacciamo. Se i serial killer non esistessero, la televisione dovrebbe inventarli. A suo intero beneficio, si intende, perché evidentemente, da un punto di vista della programmazione, i serial killer funzionano bene.

Solo su Netflix, in questo periodo, sono in rotazione diversi documentari che narrano le gesta, per così dire, degli assassini seriali più famosi. Per citarne alcuni: “Sons of Sam”, che sposa la teoria secondo la quale dietro gli omicidi compiuti a New York alla fine degli anni Settanta dal postino David Berkowitz ci fosse una rete nazionale di satanisti, “The Night Stalker”, inteso a ricostruire la sanguinosa “carriera” di Richard Ramirez e la sua cattura a Los Angeles nel 1985, e “Conversazioni con un killer: the Ted Bundy tapes” che dai colloqui con l’assassino registrati su cassetta ricostruisce una delle storie criminali più violente (e incredibili) di sempre. Ma di serial killer narrano anche “The Ripper”, “The Confession Killer”, “I am a killer” (due stagioni), oltre ad alcune serie fiction, tra cui la bellissima “Mindhunter” sulle origini dei moderni metodi investigativi basati sulla costruzione di approfonditi profili psicologici.

Nel registrare con soddisfazione come, oggi, il fenomeno dei serial killer “veri” sia un po’ in declino - tecniche come la rilevazione del Dna rendono più difficile farla franca anche quando le vittime sono scelte “a caso” -, vien da chiedersi a che cosa sia dovuto il successo di quelli “televisivi”. Certo, la fascinazione per il mostro non è cosa nuova, altrimenti non si parlerebbe ancora di Jack lo Squartatore, ma i documentari di oggi si spingono oltre l’interrogativo “chi è stato?” per avvicinare quello, molto più ambizioso ma anche astratto, del “perché ha ucciso” e, soprattutto, a quello ancora più impegnativo, perché raggiunge la radice dell’essere umano, “assassini si nasce o si diventa?”

In altre parole, conta solo (o soprattutto) l’ambiente in cui si cresce (molti assassini hanno in comune un’infanzia costellata di abbandoni e di abusi), o c’è qualche fattore fisico - chimico e biologico - che provoca in un cervello apparentemente sano l’insorgere di tendenze omicide? I documentari di cui sopra spingono l’indagine abbastanza a fondo, ma non al punto da rinunciare per la scienza a una narrazione drammatica e punteggiata da colpi di scena.

Tentazione in cui non cadde, nel 1972, lo psichiatra Henry V. Dicks nello stendere il suo saggio “La libertà di uccidere”, frutto di una serie di incontri nelle carceri tedesche con ex ufficiali delle SS, responsabili in vario grado degli eccidi condotti nei campi di concentramento e non solo. Lunghe conversazioni tradotte poi in analisi psicologiche tese a classificare in “tipi” questi inflessibili esecutori di ordini disumani. Ebbene, Dicks arrivò alla scoperta più tremenda e raggelante, quella che nessun documentario avrà mai il coraggio di raccontare. Fatta la tara di qualche autentico psicopatico, buona parte di queste persone entrate nelle SS avrebbe potuto condurre una vita normale se le circostanze e una propaganda mirata non avessero risvegliato in loro il mostro. Non tanto la banalità del male quanto il male nella banalità. L’assassino, scoprì Dicks, siamo noi.

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