Il mattone del pensiero

È inevitabile - e giusto - che ci siano discussioni e polemiche locali, ovvero nazionali, sulle vittime e sui danni provocati dal maltempo ma, guardiamoci intorno, il mondo intero è impegnato in un corpo a corpo con la Natura. Uragani, terremoti, nubifragi: tutto ciò fa danni in proporzione alla forza con cui si presenta, alle politiche applicate nello sviluppo e a quelle riservate alla manutenzione delle strutture. Non c’è disastro che non abbia responsabilità umane, ma non c’è disastro, anche, che quando interviene la Natura sia del tutto responsabilità dell’uomo.

Forse è ora che l'umanità costringa se stessa a un passo avanti. C’è stato un tempo, non lontanissimo, quando chi aveva la possibilità di costruirsi o farsi costruire una casa teneva senza dubbio presente poco altro se non la necessità che restasse in piedi il più a lungo possibile.

Si usavano, per le mura esterne, mattoni di cemento e sasso che, in dialetto, si chiamavano “bulugnìn”. Poi è cambiato tutto quando è arrivato lo “sviluppo”: già nella parola, trasmetteva un’idea di movimento, di ansia per il nuovo, di spinta che procede senza voltarsi mai indietro. L’ingegneria ha aiutato e compensato questa tendenza, rendendo robusti anche i materiali più leggeri ma, forse, ha lasciato filtrare una mentalità incline al provvisorio, allo standard, al “domani è un altro giorno”. Con questo non dico che bisogna tornare ai “bulugnìn” nell’edilizia. Ma nel pensiero sì: il nostro futuro ne guadagnerebbe in solidità.

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