La birra fresca del dottor Saunders

Mentre nel primo, immoto sabato d’agosto il termometro sale inesorabilmente verso i 36 gradi, io mi chiedo, con un poco di coraggio, in quale pagina della letteratura mondiale si sarà registrata la temperatura più alta di sempre. Nell’Inferno di Dante, è forse la risposta più ovvia, ma anche il cratere del Monte Fato, nel quale Gollum precipita con tutto l’anello a chiudere la Trilogia di Tolkien, doveva essere piuttosto opprimente.

In nessun luogo come nella letteratura il caldo è un termine relativo. Forse è l’unico ambito in cui il concetto di “percepito” ha davvero senso. Fa caldo quanto l’autore decide di farne percepire ai suoi protagonisti. In quale pagina, dunque, un personaggio letterario è stato costretto dal suo autore a percepire più caldo che in qualunque altra?

Fa troppo caldo, naturalmente, per procedere a una ricerca sistematica. Alla mente mi sovvengono certe inchieste di Maigret, in cui il commissario si trascina di malumore sui marciapiedi assolati di una Parigi quasi del tutto abbandonata dai suoi abitanti. Se non sbaglio, anche ne “Il potere e la gloria” di Graham Greene si suda che è un piacere: i personaggi cercano rifugio nelle ombre ritagliate da tetti e balconi.

 Se però dovessi scegliere di slancio la pagina per me più calda di tutte, dovrei senz’altro rivolgermi a Maugham e al suo “Acque morte” ("The narrow corner"). Nel libro, un medico tossicodipendente e radiato dall’albo, il dottor Saunders, si ritrova, più o meno alla deriva, a Takana, un’isola delle Indie Orientali Olandesi - oggi Indonesia - e, a poche pagine dall’inizio, si intrattiene pigramente sulla soglia del negozio di un cinese, suo paziente.

«Una tettoia di canne lo proteggeva dal sole - scrive Maugham, nella traduzione di Franco Salvatorelli -, ma sulla strada il sole picchiava, abbagliante. Un cane spelacchiato annusò un rifiuto avvolto da uno sciame di mosche e si mise in cerca di qualcosa da mangiare. Due o tre galline razzolavano per la carreggiata e una, pancia a terra, strofinava le penne nella polvere. Fuori dal negozio dirimpetto un bambino cinese nudo, col ventre enfiato, cercava di costruire un castello di sabbia con la polvere della strada. Mosche gli svolazzavano attorno, si posavano su di lui, ma il bambino non se ne curava, e non le scacciava, intento al suo gioco. Passò un indigeno con addosso solo un sarong, e in bilico sulla spalla una pertica che reggeva ai capi due ceste di canna da zucchero. All’interno della bottega un commesso, curvo su un tavolo, era impegnato a redigere, con inchiostro e pennello, un documento in caratteri cinesi. Un coolie seduto per terra arrotolava sigarette e le fumava una dopo l’altra. Nessuno entrava a far compere. Saunders chiese una birra. Il commesso smise di scrivere, andò in fondo a prendere una bottiglia da un secchio d’acqua e la portò al dottore, con un bicchiere. La birra era gradevolmente fresca».

Ecco, quel sorso «gradevolmente» fresco rappresenta per me la ragione precisa per cui, nel bel mezzo del caldo agostano, val la pena riprendere la pagina più torrida in cui ci si sia mai imbattuti e rileggersela. La birra del dottor Saunders è il premio e la svolta, il contrasto che salva il personaggio di Maugham e noi tutti dallo stupore di un martellante sole indonesiano. Non si tratta di una vera bevanda, è inteso, ma di un espediente, di un chiaroscuro ben applicato, di un sollievo concesso al termine di una passeggiata impegnativa. Nella pagina di Maugham, giocata su un breve contrasto tra luce e buio, caldo e freddo, dolore e piacere, troviamo così riprodotto un istante perfettamente autentico, nel quale è facile riconoscersi. Nulla di grandioso o stupefacente: solo un cenno di riconoscimento tra uomo e uomo, da una parte all’altra della pagina. Quel fattore che, per restare in tema, potremmo chiamare calore umano.

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