La condanna è giusta, la sentenza sbagliata

Dall’Ansa del 10 novembre scorso: «La condanna era stata regolarmente pronunciata, ma le motivazioni della sentenza riguardavano un processo differente, con un altro imputato. È successo negli uffici della Corte d’appello di Torino: un infortunio, si pensa ad un errore materiale, che ha costretto la Cassazione a intervenire e ad annullare il provvedimento, ordinando un nuovo passaggio davanti ai giudici che probabilmente si rivelerà inutile perché il reato è ormai caduto in prescrizione».

Prima di procedere a un doveroso sfogo sulle inadempienze della giustizia in Italia, magari corredato da un pistolotto, sempre attuale, sull’intrinseca assurdità della burocrazia, vorrei si leggesse la notizia di cui sopra in termini metaforici o, se preferite, simbolici.

Intanto, ecco qualche altro dato di cronaca: il caso riferito nell’agenzia riguarda un cinquantenne che «il 22 febbraio 2019 si vide confermare dalla Corte una condanna a quattro mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Il problema è che la sentenza si riferisce a un’altra vicenda, con un imputato dal nome completamente diverso accusato di due reati (resistenza e lesioni). Il mistero, secondo la Cassazione, si spiega “verosimilmente” con uno scambio di fogli».

Capite? L’imputato è colpevole - sarebbe meglio dire “responsabile” -, ma non del reato, anzi dei reati, che gli sono contestati nella sentenza. Ditemi voi se, distolto per un momento lo sguardo dal pasticcio combinato a livello di scartoffie, questa situazione non sembra descrivere perfettamente la condizione umana.

C’è, nell’essenza degli uomini, un sospetto di colpa che, attraverso la cultura, è stato declinato in più modi, a partire dal peccato originale. C’è anche, sempre laggiù, nella nostra natura profonda, la ribelle convinzione che ci sia stato un errore giudiziario. Che ci sia anzi un continuo e reiterato errore giudiziario, al punto che gli ostacoli frapposti dalla vita sul nostro cammino ci sembrano tante punizioni immeritate, tanti atti di sadismo perpetrati senza alcun contrappeso nel diritto e nell’equità.

Eppure, nell’elevare proteste formali e spontanee per questi soprusi, non possiamo liberarci del sospetto che, comunque, del tutto innocenti non siamo e che il giudice, per quanto abbia sbagliato articolo del Codice in base al quale appiopparci la condanna, ha comunque colto l’intrinseca colpevolezza del nostro essere.

C’è però una differenza sostanziale tra il destino del cinquantenne della notizia di cronaca e quello dell’imputato esistenziale che è in noi: per quest’ultimo non è prevista alcuna scappatoia, non un’assoluzione, non un proscioglimento a causa della prescrizione. Sarebbe comunque il caso di ricavarci un romanzo, o forse un film che spinga più avanti ancora l’incubo del processo kafkiano. Il film incomincia così: il protagonista va al cinema e, non appena lo schermo si illumina, capisce che sta per iniziare un film che non aveva alcuna intenzione di vedere.

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