La parola di tendenza

Si potrebbe tentare di scrivere una storia del giornalismo in base alle parole di cui, nel tempo, esso si innamora e poi, annoiato, abbandona. Forse è stato già fatto. Comunque sia, bisognerebbe includere nell’opera l’ossessione linguistica più recente: «preoccupante».

Intesa come aggettivo (ma se si vuole anche come participio presente del verbo «preoccupare»), la parola oggi si adatta a tutto. Nell’ultima settimana - ho controllato - la sola agenzia Ansa l’ha usata, nel suo notiziario, circa un centinaio di volte.

Tutto, a seconda delle circostanze, può diventare «preoccupante». Per Draghi, presidente della Bce, preoccupante è «l’allentamento delle regole». Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia (partito che, curiosamente, sembra negarle il diritto di definirsi “Sorella”), sostiene che è preoccupante «la brutale vendetta nei confronti dei magistrati onorari». Schifani, senatore di Forza Italia, va sul classico: preoccupante, per lui, è «l’aumento dello spread».

Preoccupante, spessissimo, è poi il «dato». Quale dato? Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Qualche giorno fa, per esempio, era preoccupante il dato che, in Rete, genitori e ragazzi si comportano (male)allo stesso modo, quando dagli adulti ci si aspetterebbe che venga il buon esempio. Ancora, ad aggiudicarsi ogni due per tre l’aggettivo in esame è il «calo»: giusto domenica era segnalato come preoccupante «il calo negli acquisti di latte fresco».

Oggi, dunque, è d’uso portare il pubblico a conoscenza di un fenomeno aggiungendo, onde presentarlo in luce negativa o problematica, che è preoccupante. Ma che cosa vuol significare in realtà, la scelta di questa parola? Che la circostanza, qualunque essa sia, è compromessa ma non irrimediabile, oppure trattasi di un eufemismo usato in luogo di «catastrofe inevitabile»? Difficile da dire, ma il dubbio certo non può che essere preoccupante.

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