La verità vince sempre. Ma quando è troppo tardi

Ormai lo diamo per scontato, ma all’inizio di questa pandemia, che speriamo si stia avviando al definitivo tramonto, ci ha colto impreparati la scoperta che non esistono in natura due virologi in possesso della stessa opinione.

Stupore dovuto a ignoranza: molti di noi, sbagliando, pensavano che la scienza fosse fatta di certezze assolute, quando invece è costruita con fatica su ipotesi, riscontri, nuove ipotesi e nuovi riscontri. A peggiorare le cose è poi intervenuto l’ego del virologo il quale, ora lo sappiamo, è entità piuttosto consistente - alcuni rilievi lo avvicinano alla superficie congiunta del Lazio e dell’Abruzzo - e impedisce al singolo medico di ammettere che un collega abbia ragione e addirittura lo paralizza quando sarebbe opportuno riconoscesse di aver detto una castroneria.

Esiste però qualcosa di ancor più profondo, potremmo chiamarlo un difetto generale di percezione, che non permette alla comunicazione scientifica di arrivare al pubblico in una forma il più possibile vicina all’attendibilità.

Il problema, così come identificato da alcuni ricercatori universitari americani, riguarda la riproducibilità degli studi. È questo, nella ricerca, un paletto fondamentale: una conoscenza che voglia dirsi scientifica, e quindi oggettiva (o meglio, intersoggettiva: ovvero portatrice di conclusioni indipendenti da chi le trae), deve provenire da riscontri ed esperimenti che, ripetuti in eguali condizioni, diano sempre lo stesso risultato.

Ebbene, gli studiosi americani hanno notato che nella comunicazione dei risultati scientifici il concetto di riproducibilità viene trascurato. Se una ricerca attira l’attenzione per essere arrivata a conclusioni sorprendenti, continuerà a essere citata anche se successivi riscontri metteranno in dubbio o addirittura contraddiranno la sua riproducibilità.

Detto in parole più semplici il concetto diventa perfino ovvio: anche nell’ambito scientifico hanno più diffusione ricerche che possono essere presentate applicandovi un titolo “sensazionalistico” rispetto a quelle che hanno superato riscontri più severi. Anche così banalizzato, lo studio ha tuttavia grande interesse, perché è forse il primo tentativo “scientifico” di misurare quanto in profondo e quanto lontano vada il sensazionalismo nell’informazione. Il risultato è allarmante e incoraggiante allo stesso tempo.

Il sensazionalismo si diffonde molto rapidamente e a macchia d’olio: in pratica, è in grado di raggiungere tante persone - e di influenzare le loro opinioni - in poco tempo, ma, alla lunga, perde la battaglia con l’accuratezza e la precisione dell’informazione. Studi precisi, meno “strillati” nella presentazione, “replicati” fino a quando possano dirsi sicuri, faticano a muovere i primi passi, vengono citati poco e raggiungono raramente un’ampia e rapida circolazione nei media e sui social network. Con il tempo, però, il sensazionalismo scolora, mostra i suoi limiti, non regge il peso del suo stesso clamore: ecco allora che il lavoro ben fatto viene a galla e si impone.

Tuttavia, alla velocità con cui si muove l’informazione e a confronto con le esigenze di incasso a breve termine della politica e dei mestatori della Rete, il danno a quel punto potrebbe essere già irreparabile.

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