Non ho visto “Dogman”, ma di sicuro è un capolavoro

Lungi da me voler contribuire al catastrofismo che, con termine catastrofista, avrei urgenza di definire “dilagante”. C’è però un problema: il rinnovarsi di certi comportamenti spinge inevitabilmente a trarre conclusioni apocalittiche.

Prendiamo, a titolo di esempio, l’uscita nelle sale del film “Dogman” di Matteo Garrone. Presentato a Cannes, dove è stato accolto con entusiasmo, il film ha prodotto un effetto di risonanza anche in Rete. Qui i commenti sono stati, al solito, variegati ma anche, in buona parte, sfasati quando non decisamente stolti.

Prima ancora che qualcuno, oltre alla selezionatissima platea di Cannes, potesse vederlo, sui social network è iniziata una catena di contumelie alimentata da una falsa voce: «”Dogman” mostra maltrattamenti sui cani».

Non è la prima volta che qualcuno, armatosi di una causa oggettivamente nobile, pensa di essere, proprio in virtù di ciò, dispensato da ogni carità, dotato di salvacondotto per sfondare ogni limite verbale e, sopra ogni cosa, esonerato dal rispetto, anche minimo, della verità.

Ispirato, con molta larghezza, a un terribile fatto di cronaca degli anni Ottanta - il caso del “canaro” della Magliana - “Dogman” contiene un certo grado di violenza, ma mai diretta verso gli animali. Tuttavia, una volta che nel Web qualcuno alza la fiaccola della virtuosa indignazione, anche se del tutto fuori luogo, non c’è marcia indietro: il furibondo zelo giacobino si autoalimenta e chi cerca di contrastarlo ottiene il solo risultato di illuminare se stesso dell’assurda luce di complice dei torturatori, quando - in Rete ci vuole un millisecondo per saltare alle conclusioni - non di torturatore egli stesso. Valla poi a ritrovare la verità, tradita da una ragione che ormai si preoccupa più di evitare accuse infamanti che di offrire una stampella alla decenza. Oltretutto, se il biasimo di indulgere in immagini di violenza contro gli animali non dovesse attecchire, a sistemare “Dogman” ci pensa un’altra curiosa tesi, pure circolata in questi giorni.

Secondo l’elevatissimo pensiero, dal caso di cronaca citato più sopra «non si doveva» trarre un film, per il semplice fatto che si tratta di una «storiaccia» di cronaca nera, una vicenda piena di risvolti turpi e dettagli rivoltanti: evocarla sullo schermo significa dunque andare in cerca degli istinti più bassi del pubblico.

Ora, non c’è dubbio che il delitto del “canaro” fu particolarmente efferato, ma dichiarare che non è lecito prenderlo a prestito per realizzare un film è porsi su un piano di pregiudizio morale spaventoso per la sua ottusità. La letteratura e l’arte (con un largo contributo del cinema stesso) ci hanno ben insegnato che non è l’oggetto del narrare o del raffigurare ad avere importanza: conta solo ciò che l’artista riesce a trarre dal materiale grezzo, altrimenti “Madame Bovary” sarebbe un ordinario caso di suicidio e le mele di Cézanne sarebbero marcite da un pezzo.

Occorre sempre leggere, guardare e pensare, prima di giudicare un’opera. L’unica eccezione potrebbe essere, per assurdo, proprio “Dogman”: anche se offrisse 90 minuti di schermo nero, meriterebbe di essere definito un capolavoro per come è già riuscito a illuminare l’orribile gratuità dei nostri processi critici.

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