Notizie da un Paese che ha chiuso porta e porti

Ora che abbiamo chiuso non solo la porta, ma anche i porti, e siamo rimasti dall’altra parte rispetto al mondo, è tempo di interrogarci: come si sta in questo ritrovato isolamento, in questa rinnovata autarchia? Mi scuso se l’accostamento tra porte (di calcio) e porti (di mare) è irriguardoso: da una parte si allude a una vera tragedia, dall’altra al problema dei migranti.

Ancora: perdonate la battutaccia. Ma non vuole essere questo l’ennesimo pezzo schierato sulla dolente faccenda di Aquarius. O meglio: schierato magari sì, ma anche un po’ eccentrico, spostato rispetto all’asse dell’argomento.

Da questo punto di vista particolare, viene infatti da chiedersi che cosa si prova a vivere in un Paese che, al momento, sembra essersi isolato dal mondo, sia per decisione politica (la linea cosiddetta “dura” nei confronti dell’immigrazione), sia per incapacità intrinseca (l’eliminazione dal Mondiali di calcio).

Si potrebbe arguire, intanto, che stiamo parlando di cose ben diverse per tasso di importanza e drammaticità, ma è vero anche che a comporre l’identità di un Paese concorrono tante cose, alcune più importanti, certo, e altre meno, ma tutte in qualche modo corresponsabili del risultato finale. Si potrebbe sostenere perfino che in entrambi i settori il prodotto finale non è affatto dovuto a scelta, ma a sostanziale incapacità: quella di abbracciare la situazione ad ampio sguardo respingendo la tentazione di rifugiarsi nell’inevitabile mediocrità dell’ovvio. Alla fine dei conti, però, per quanto sia nobile e giusto cercare di capire come sia stato possibile arrivare a questo punto, è molto più urgente interrogarsi sul come procedere adesso che ci siamo arrivati. Temo che il mio argomentare appaia tremendamente astratto: non lo è. Infatti, quando ci si ritrova cittadini di un Paese che per forza o convinzione si chiude in se stesso, nella politica come nella cultura, nell’informazione come nello sport, è legittimo preoccuparsi.

E non solo, si badi, per la macroconseguenze di questa a tratti rancorosa rivendicazione di distacco identitario, ma anche per quelle che, presto o tardi, finiranno per cadere nel personale che, come si diceva una volta magari esagerando, è infine anche politico: come crescerà chi, oggi, giovane e di conseguenza beato, se ne va in giro assorbendo furenti banalità sui tedeschi che mangiano crauti, gli inglesi che non si lavano e i francesi che, non c’è neppure bisogno di imporsi un minimo sussulto di fantasia, sono sempre e soltanto francesi?

Avremo coltivato - questo il timore - una bella generazione di persone che, arrivate al Brennero, cominceranno a sentir mancare l’ossigeno, a non sapere più che dire perché non sapranno come dirlo e, cosa anche peggiore, perché non avranno niente da dire.

Va anche detto, per amor di oggettività, che la società non si modella soltanto nella cabina elettorale e neppure nelle chat o sui social. Men che meno, la mappa di una Nazione è tracciata dalle teste parlanti che mai si schiodano dai talk show. I confini dell’Italia, come quelli tutti gli altri Paesi del mondo, perfino quelli della Corea del Nord, sono pieni di spifferi. Se non passano le persone, a volte passano i pensieri, le idee, la musica e, qualche volta, perfino il coraggio.

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