Reclusa distilleria

Leggere sempre - ripeto: sempre - i notiziari locali. Qualunque sia la fonte. La ragione è spiegata con un esempio concreto:

«REGGIO CALABRIA, 14 GEN - Avevano messo a macerare, all’interno della loro cella, un ingente quantitativo di frutta dalla quale contavano di distillare artigianalmente 90 litri di grappa. Il piano ideato da alcuni detenuti del carcere Arghillà di Reggio Calabria è stato sventato grazie all’intervento della Polizia penitenziaria. Teatro dell’operazione il reparto detenuti “Riprovazione sociale” dell’istituto di pena reggino. “L’intervento ha scongiurato - si afferma in una nota del sindacato - atti turbativi della sicurezza che sarebbero certamente scaturiti qualora la sostanza alcoolica fosse stata consumata dalla popolazione detenuta”».

Lo so, non c’è niente da ridere. I responsabili del carcere di cui all’oggetto della notizia avrebbero potuto trovarsi tra le mani una situazione esplosiva (o per meglio dire, infiammabile) se i detenuti fossero riusciti a portare il loro “piano” a compimento. Eppure non si può fare a meno di chiedersi che cosa stia in realtà succedendo nelle prigioni italiane, dove il dolore e la tragedia che da sempre ammorbano questi luoghi finiscono per produrre anche, date le circostanze, una specie di condensato - tanto per rimanere nel settore - di ridicolo.

“Atti turbativi alla sicurezza” scrive il sindacato facendo ricorso a un linguaggio eufemistico e burocratico insieme. Noi però possiamo immaginare la scena con più chiarezza e dare all’etichetta “Riprovazione sociale” un significato tutto nuovo. La verità è che le prigioni, come tutti i muri e tutti i mattoni, contengono le persone ma non le loro pulsioni. Fa sorridere, ma anche spaventa, che i detenuti di Reggio avessero deciso di produrre in massa uno strumento di annichilimento personale. Forse la direzione dovrebbe pensare a distrarli promuovendo qualche attività - come dire? - di evasione.

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