Ritorno alla provincia (da cui non c’è partenza)

Niccolò Carradori, un autore che credo giovane per il tono della sua scrittura (e - vabbé - anche per qualche sua foto vista in Rete) ha affrontato su Vice.com un tema importante del quale, impegnati come siamo a raccogliere ogni parola di Salvini, ci eravamo un po’ dimenticati: quello della provincia.

«La provincia italiana - scrive Carradori - è un luogo dell’anima. Che tu te ne sia andato o che tu sia rimasto; che tu conduca una vita totalmente aliena rispetto al posto da cui provieni o che tu abbia ereditato l’attività commerciale dei tuoi; che ogni occasione sul sito di Italo sia buona per tornare o che tu non ci metta piede da anni; che tu la disprezzi con ogni ione del corpo, o che tu la consideri l’unica dimensione adatta a te. Rimane comunque lì, anche se non ci pensi quasi mai».

La questione, che potrebbe sulle prime apparire intellettuale o troppo vagamente sociologica, è invece decisiva perché se siamo “provinciali” nelle nostre relazioni vicine e lontane (e oggi la gittata delle nostre interazioni è immensamente potenziata dalla Rete) sconteremo delle conseguenze: vale a dire che continueremo a pensare e ad agire sulla base di una dimensione, come scrive Carradori, sostanzialmente immutabile, l’unica nella quale la nostra identità trova i mezzi e il coraggio di affermarsi.

Di provincia se ne trova molta nella letteratura italiana, e nelle sue pagine migliori. Lo scenario molto spesso è quello della paralisi: l’impossibilità di andarsene finisce per esaurirsi in una tensione alimentata dalla noia, titillata dal pettegolezzo, sfogata con la trasgressione e, infine, nascosta in segreti quantomai pubblici.

In più, come fa notare lo stesso Carradori, la provincia induce un’esagerata percezione di se stessi, una dolorosa preoccupazione per la posizione che si occupa nella scala sociale e per come questa verrà commentata e giudicata dal prossimo.

A tutto ciò si sfugge, all’apparenza, integrandosi nelle città, laddove integrarsi significa fuggire. Si potrebbe azzardare che in realtà i grandi centri urbani sono enormi contenitori di provinciali in fuga. Ciò spiegherebbe l’impersonalità e la freddezza che caratterizza la vita delle metropoli, dove ognuno «bada ai fatti suoi» e s’ingegna per sopravvivere in un sistema urbano che offre molti stimoli ma anche tante complicazioni: la tremenda verità è che le città sono agglomerati di provinciali timorosi di rivelarsi l’uno all’altro, che si alimentano di fretta e di anonimato per non dover interagire e dimostrare così, ancora una volta, di non essere mai riusciti a fuggire da se stessi, ovvero da quelle paure, insicurezze e ristagnanti ignoranze che porteranno con sé fino all’ultimo approdo.

La gente “non di provincia” è perfino difficile da definire, il che ne rende automaticamente sospetta l’esistenza. È forse gente che si è liberata dalla timidezza e dal sospetto, per approdare all’assurdo.

Il ritratto più preciso dei “non provinciali” lo dobbiamo, io credo, all’umorista James Thurber, in particolare ai salotti “raffinati” che amava comporre nelle sue vignette, pieni di borghesi ripuliti ma spesso incapaci di contenersi. In una di queste vignette una signora s’accosta a un uomo sul divano: «Se sa tenere un segreto - gli sussurra - le racconto come è morto mio marito».

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