Ritorno all’Arabia

Certi giorni di “vacanza” mi fanno pensare all’anticipazione, specie a quella bruciante che si prova da ragazzi. E l’anticipazione bruciante mi fa pensare a un racconto di James Joyce: “Arabia”, da “Gente di Dublino”. In esso un ragazzo promette all’amica di cui è innamorato di comprarle qualcosa a un bazar - “Arabia”, appunto - aperto in città. Purtroppo, per colpa dello zio, arriverà in ritardo: i padiglioni stanno chiudendo. Il ragazzo rimane impalato davanti a grandi vasi di porcellana che non può permettersi, i suoi pochi penny in tasca, avvinto da una delusione che va oltre la giornata fallita. Ecco come finisce la storia:

«Scorgendomi la signorina venne verso di me e mi chiese se desideravo comprare qualcosa. Il tono della sua voce non era incoraggiante: sembrava che mi avesse rivolto la parola solo per un senso di dovere. Guardai umilmente i grandi vasi sistemati come guardie orientali ai due lati dell’entrata buia e mormorai:

“No, grazie.”

«La signorina cambiò di posto a un vasetto e ritornò ai due giovanotti. Ripresero lo stesso argomento. Una volta o due la ragazza mi diede un’occhiata da sopra la spalla.

«Indugiai davanti al suo banco, perfettamente consapevole che era inutile rimanere lì, ma volevo far sembrare più reale il mio interesse per gli oggetti esposti. Poi mi girai e mi incamminai verso il centro del salone. Feci scivolare in tasca le due monetine da un penny vicino a quella da sei pence. Sentii una voce dal fondo della galleria gridare che non c’era più luce. La parte superiore della sala era ora completamente al buio.

«Alzando lo sguardo nell’oscurità mi vidi come una creatura trascinata e derisa dalla vanità, e gli occhi mi bruciarono di angoscia e d’ira».

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