Sembra una finale ma è il solito battibecco

Oggi si gioca Francia-Croazia. Che, all’occhio distratto, potrebbe passare per la finale del campionato mondiale di calcio. Sappiamo bene che non è così: Francia-Croazia, come abbiamo sentito dire più e più volte in questi giorni, da tribune alte e tribune basse, da articolesse pensose e ponderose e da commenti social rapidi nonché brucianti, è il confronto epocale - e dunque in qualche modo inevitabile - tra due opposti indirizzi ideologici.

Da una parte la Francia, multirazziale, multiculturale, meticcia per non dire bastarda, esperimento sociale intriso di compromessi e cedimenti verso lo straniero, di slittamenti morali che le hanno impresso financo sull’epidermide il marchio della promiscuità razziale senza però riscattarla da una generale stronzaggine ormai penetrata a fondo nei tessuti degenerati, e dall’altra la Croazia «identitaria, fiera e sovranista», monocolore e anche un po’ monovolume, un paese dove gli euro si usano per accendere la stufa e i “buonisti” per spolverare i mobili, una via di mezzo tra il Walhalla e Hobbiton.

Non c’è bisogno che i riferimenti storici, politici e mitologici siano precisi: l’importante è che l’occasione di Francia-Croazia venga sfruttata appieno per confermare la divisione, lo scontro, la costante dicotomia che oggi, sola, alimenta l’ultima forma di confronto capace di sollevare qualche interesse: il battibecco, il litigio, la reciproca dichiarazione di intolleranza.

Vien da domandarsi se, per caso, non siamo in presenza di una malattia mentale collettiva, una specie di psicosi di massa, un’ossessione epidemica che tutto trasforma in alterco, tutto dispone all’odio, tutto piega al crescente estremismo delle opinioni personali. Personalmente, non credo ci siano dubbi: basta osservare con un minimo di distacco la comica urgenza che spinge i singoli come le moltitudini a partecipare a insensate gazzarre nelle quale si ripetono sempre le solite accuse, ci si scambia un volume immutabile di insulti per ricavarci nient’altro che un rinnovato risentimento, una confermata sensazione di malanimo personale.

Una malattia che rende ciechi anche alla più limpida delle evidenze, alla ragione che vorrebbe suggerire una semplice spiegazione storica e sociale per le differenze, anche epidermiche, tra i giocatori della Croazia e quelli della Francia, figli in entrambi i casi di situazioni di cui non hanno colpa né merito, eletti loro malgrado a difensori di “valori” solo nella testa di chi, per riuscire a difendere qualcosa, ha bisogno di farlo per procura.

Lo so: il calcio non è mai stato “soltanto” calcio e una partita non è mai stata “soltanto” una partita: proprio per questo si tratta di un gioco capace di gonfiarsi fino ai limiti dell’epica e della poesia. Ma in questo caso si tratta di una deformazione diversa: grottesca, opportunistica e, per molti, involontaria. Nasce infatti dall’incapacità di ragionare al di fuori del ping -pong delle contumelie, delle frasi fatte, dell’odio prêt-à-porter. C’era l’occasione di fare una scelta - tra Francia e Croazia - libera perché istintiva, divertita e perfino insensata: niente da fare, gratti il mondiale e vien fuori Salvini, sfreghi la coppa e spunta Saviano. Che tristezza.

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