Sempre 11 settembre

Prima, si diceva che ogni americano ricordasse dov’era e che cosa stava facendo nel momento in cui apprese dell’assassinio del presidente Kennedy; poi, l’11 settembre 2001 - giusto 15 anni fa - la memoria collettiva dovette riallinearsi. Adesso tutti, non solo gli americani, ricordiamo dove eravamo e che cosa stavamo facendo quando gli aerei si schiantarono nelle Torri Gemelle di New York.

Un momento sospeso nel tempo, immobile, al quale potremmo attribuire un’importanza perfino superiore a quella di storico marcapagina. L’11 settembre è il nostro compleanno collettivo, e l’11 settembre 2001 la data in cui siamo nati al tormentato mondo che conosciamo oggi.

Non che prima vivessimo nell’armonia trasognata del paradiso terrestre, oppure che la Terra fosse un giardino nel quale si passeggiava discettando di filosofia tra affettate coppie di pavoni e visioni di scoiattoli guizzanti, ma solo a partire da quell’11 settembre spaccature e nevrosi, paure e frustrazioni presero la formazione incarognita che hanno oggi. La xenofobia ritrovò da subito terreno fertile mentre la cultura, anziché tappeto universale, cangiante ma in grado di offrire un sostegno comune, finì per risagomarsi in mille forme ostili: bandiere, burqa, uniformi.

Se ragioniamo come ragioniamo, parliamo come parliamo e se viviamo prigionieri di incubi sempre più ristretti, è perché abbiamo subìto il trauma dell’11 settembre. In quel giorno, guerra, paura, intolleranza e follia si sono avvicinate d’un colpo, riprendendo la forma incombente e minacciosa della tragedia viva , dopo che, in quanto occidentali, credevamo di averle congelate per sempre nell’immota cupezza della Guerra fredda. Ciò che avevamo confinato alla periferia del mondo ritrovava con prepotenza un posto al centro delle vite di tutti. E di sicuro non per migliorarci se - ostinato incantesimo - da 15 anni il calendario segna sempre 11 settembre.

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