«Ti chiamo dopo» capolinea della comunicazione

Sbaglierò, ma mi sembra di poter dire che, nell’ultima settimana, siamo riusciti ad aggiungere - il gergo più moderno preferirebbe “sdoganare” - le espressioni «Non fare lo scemo», «Ti chiamo dopo» (lettera di Trump a Erdogan) e «Lei sa chi è Cicciogamer?» (intervista di Gianluigi Nuzzi a Elsa Fornero) al linguaggio giornalistico-istituzionale.

Molti troveranno che scandalizzarsi per l’impiego in ambiti formali di locuzioni così sbarazzine sia patetico o addirittura ipocrita. Trump, dopo tutto, ha fatto ben capire le sue intenzioni al “collega” turco e Nuzzi, da giornalista, ha sottolineato senza equivoci la distanza che separa una “professorona” come Elsa Fornero dalla gente comune.

Ma è davvero così? Possiamo proprio dire che il parlar semplice va sempre e comunque dritto al cuore della questione mentre quello forbito è per forza di cose un esprimersi obliquo, sospetto, indicativo di intenzioni occulte e ambigue?

A furia di disprezzare le tortuose allocuzioni di cui la politica italiana, un tempo, faceva ampio uso (chi non ricorda le “convergenze parallele”?), siamo arrivati alla sintesi grilliana del “vaffanculo”: un ermetismo più affine ai cessi della caserma che a Ungaretti. Da Nuzzi alle “Iene”, poi, il giornalismo ama di questi tempi tendere l’agguato ai potenti: sospettandoli sempre e comunque di elitarsimo e disonestà, infila quando può domandine tendenziose e, puntando il microfono alle viscere, intima: «O la risposta o la vita».

La trappola di Nuzzi, a guardar bene, non smaschera proprio nulla: il fatto che Elsa Fornero non conosca “Cicciogamer” non le impedisce di parlare con competenza della posizione economico-sociale dei giovani italiani. In base a questa logica, se Nuzzi, putacaso, avesse difficoltà ad articolare sui due piedi la differenza ontologica tra essere ed ente in Heidegger, lo si potrebbe accusare, da giornalista privo di certezze su uno snodo filosofico fondamentale, di non essere in grado di vedere e tantomeno raccontare la realtà che lo circonda.

Insomma, semplificare (o “sminchiare” come preferirebbero dire gli agenti della presunta naturalità linguistica), non significa affatto chiarire, e tendere trappole furbesche certamente non aiuta la reciproca comprensione.

Prendiamo il caso di Trump. Nella nostra esperienza, quando mai l’uso dell’espressione «Non fare lo scemo» ha indotto qualcuno, in effetti, a smettere di fare lo scemo? Io direi mai e ne sono più che convinto. Il presunto «scemo», semmai, insisterà nel suo comportamento, proprio per dimostrare che non si crede «scemo» e ritiene di non esserlo mai stato.

Tutti, poi, sappiamo che cosa vuol dire «Ti chiamo dopo». Di solito, basta replicare «No, aspetta: ti chiamo io», per interrompere una volta per tutte la comunicazione. Uno scambio di banalità, di false promesse, di frasi vuote, e subito scende il silenzio del nulla, ovvero lo sgomento del dialogo abortito. «Ti richiamo io» disse l’uomo all’intelligenza. Voi l’avete più sentito?

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