«Il mio primo giorno sui banchi
Sognando la fine della guerra»

Il racconto dell’avvocato Antonio Costantino, 77 anni, testimone dell’armistizio e della guerra mondiale: La maestra vestiva sempre in uniforme, noi portavamo soltanto calzoni corti»

«Nella mia classe c’era una sola maschera antigas, appesa al muro. Mi è tornata in mente proprio in questi giorni, in cui si parla di Siria e di bimbi gassificati. Avevo sei anni ma ricordo bene che durante le lezioni mi domandavo cosa sarebbe capitato se qualcuno avesse usato i gas. Si sarebbe salvata soltanto la maestra?».

Settembre 1943, settembre 2013: oggi le scuole di Como riaprono, in concomitanza con un anniversario “tondo”. Settant’anni fa, in queste ore, l’Italia si illudeva di avere chiuso i conti con la guerra mentre, esattamente come oggi, centinaia di bimbi aspettavano la fine dell’estate e la ripresa delle lezioni, fino al 1976 fissata al primo ottobre.

Tra quei bimbi, a giocare senza giocattoli tra via Monti, dove viveva, e le elementari di via Brambilla, c’era anche l’avvocato Antonio Costantino, 77 anni, testimone, al pari di tanti suoi coetanei, di un’epoca sfortunata, in cui stomaci e tasche vuote imponevano priorità diverse. E in cui di diritto allo studio non parlava ancora nessuno. «Dell’8 settembre conservo un ricordo nitidissimo. Ero con mia madre e mia sorella in via per Brunate… Stavamo salendo a Garzola, dai coltivatori. Credo che mamma ci portasse a recuperare un po’ di latte e un po’ di farina gialla in casa di Adelina Baserga, una contadina che d’inverno scendeva verso via Monti nella neve con una gerla di legna in spalla. La portava per noi bambini, per scaldarci con il fuoco… Beh, quel giorno ci imbattemmo in un tizio che correva giù urlando, dicendo che la guerra era finita e che era stato firmato l’armistizio… Purtroppo, anche se non potevamo ancora saperlo, la guerra non fece che peggiorare».

Delle scuole di via Brambilla, Costantino conserva ricordi altrettanto precisi: «Portavamo tutti i calzoni corti, estate e inverno… Avevamo una cartella di tela incerata, un prodotto molto autarchico di qualità discutibile, il sillabario, che doveva durare cinque anni, e i quaderni, che costavano cari. La nostra insegnante era la maestra Cortesi… Vestiva sempre in uniforme, un abito nero, forse addirittura in orbace, con i bottoni d’oro. In classe eravamo soltanto bimbi maschi, e quando suonava l’allarme antiaereo correvamo tutti nei rifugi di via Crispi. Nelle notti più limpide, oltre a udire l’eco delle esplosioni a Milano, riuscivamo anche a intravederne i bagliori».

Il congedo dalla guerra e dall’infanzia fu amaro: «Nella nostra casa di via Monti abitavano impiegati di banca, contabili, piccoli artigiani. C’erano il fruttivendolo Protti e il panettiere Venanzio Vanini, che dopo la guerra, per sfuggire alla cattura di chi lo accusava di essere stato un fascista, si era infilato nella bocca del forno. Ma soprattutto c’era l’avvocato Cetti, ex commissario prefettizio. Il 18 maggio del 1945, quattro uomini armati di mitra si presentarono a noi bimbi che giocavamo in cortile. Si rivolsero a me per chiedermi dove abitasse. Se lo portarono via trascinandolo fuori di casa, terreo in volto. Fu l’unica volta che omise di salutarci. Non lo rividi mai più, ma la guerra, se non altro, era finita davvero». S. Fer.

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