Non spezzare il filo
che unisce vivi e morti

 La morte ci circonda. Se ne parla ad ogni ora del giorno in televisione, ma attraverso un cortocircuito mediatico, che è come un lento anestetico che alla fine trasforma il senso della morte in una sorta di finzione. La morte in diretta diventa qualcosa che trasforma la realtà in finzione, anche quando questa realtà è terribile da sostenere, da raccontare.
In questo contesto che lentamente assumiamo come modo di pensare rischiamo, se non lo si è ancora fatto, di dimenticare la verità sulla morte che non è una fiction, ma uno dei passaggi cardine della vita umana. E soprattutto rischiamo di far cadere nell'oblio un valore che è importante per la nostra vita, per la sua stabilità, vale a dire il sentire che noi siamo parte dei nostri morti. Infatti ciò che siamo ci viene anche da loro, per quello che hanno costruito per noi, per le lezioni di vita che ci hanno lasciato, per la memoria che continua a vivere nonostante la legge naturale voglia che il nostro corpo ad un certo punto finisca. Non finisce però ciò che siamo stati, ciò che abbiamo saputo dare ai nostri cari, alla comunità in cui abbiamo vissuto.
Onorare i nostri morti, per le nuove generazioni, diventa un concetto difficile da imparare, perché vengono a mancare i gesti concreti che hanno creato la tradizione di visitare i cimiteri almeno una volta all'anno, in questi giorni. Da piccoli le nostre gite domenicali erano appunto al cimitero: viaggi brevi che però hanno costruito dentro di noi il senso dell'importanza di andare a trovare i nonni che se ne erano andati troppo presto. E quei nonni, che non abbiamo potuto conoscere, o che abbiamo visto per poco tempo, erano ancora parte di noi, attraverso i racconti della loro vita, con l'immagine che c'era sulle tombe. Vivevano in un altro modo, ancora, all'interno della nostra famiglia. Su di loro, su questa abitudine di andare a trovarli anche se non li vedevamo di persona, si è costruita la nostra idea di una morte che non conclude definitivamente l'esistenza, ma la fa vivere in un'altra dimensione, quella del ricordo che porta sempre con sé una lezione di vita che ci può essere utile nei momenti delle scelte cruciali. La nostra è stata una generazione fortunata, forse l'ultima, che grazie ad una religiosità popolare ancora viva, ha potuto sentire dentro di sé una prospettiva di morte che costruisce e rigenera la vita, sapendo che i nostri morti ci guardano e che con loro possiamo intessere un sereno dialogo interiore, perché è rimasta la forza dei legami, quelli che abbiamo vissuto e quelli che ci hanno raccontato.
Chi si porta ancora i bambini al cimitero, in questi giorni? Quando eravamo piccoli noi le maestre ci portavano al camposanto per rendere omaggio ai nostri morti. Ora tutto sembra caduto nell'oblio. E il cimitero un luogo sempre più isolato. Invece è giusto che sia considerato "centrale" perché insegna a tutti l'umiltà di sapere che ciò che siamo, viene costruito sulle basi che i nostri morti hanno preparato per noi. E soprattutto che ognuno di noi si porta dentro la cultura dei suoi morti. Nel suo ultimo libro, Il cortile dei girasoli parlanti (Piemme) la scrittrice Antonia Arslan sottolinea che «oggi il culto e il ricordo dei morti scompaiono, si teme non solo il dolore, ma anche la lieve fitta della nostalgia». Lentamente si perde così «la preziosità delle nostre radici, la custodia della memoria, la consapevolezza del nostro stare e agire nel mondo».
Fulvio Panzeri

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