Traditi dalla politica
speriamo negli italiani

Silvio Berlusconi non ha fatto niente di quello che ci si sarebbe aspettato da un governo di centrodestra. Niente. Niente di niente. Non ha abbassato le tasse, non ha liberalizzato il mercato del lavoro, non ha bloccato la spesa pubblica, non ha combattuto l'evasione fiscale, non ha colpito le rendite parassitarie, non ha smantellato l'abnorme patrimonio mobiliare, immobiliare e clientelare dello Stato, non ha riformato le pensioni. Soprattutto, non ha spazzato via il sistema delle lobby e delle corporazioni che da sempre impedisce al merito e alla concorrenza di trasformare questa repubblica delle banane in un serio paese occidentale.
La realizzazione di un programma del genere avrebbe fatto benissimo all'Italia, che in questo modo sarebbe stata in grado di garantire i risparmi e gli investimenti dei suoi cittadini e di evitare al contempo di farsi prendere a pesci in faccia come l'ultimo dei pulcinella in qualsiasi consesso internazionale. Ma non solo. Avrebbe permesso al centrodestra di uscire finalmente da quel nanismo culturale che, grazie all'alibi della caramellosa copertura di un premier onnivoro e paternalista, gli ha fatto rimuovere la coscienza che i problemi non basta sventolarli o nasconderli a seconda dei casi ma che poi bisogna risolverli.
Il centrosinistra sarebbe stato invece costretto ad abbandonare l'infantilismo delle barricate a prescindere e le rendite di posizioni vetero-sindacali che lo fanno ragionare ancora oggi secondo schemi ottocenteschi addirittura macchiettistici in un mondo globalizzato. Ormai le informazioni volano da una parte all'altra del pianeta nel giro di pochi secondi e la Cgil ci racconta ancora l'Italia come se fossimo in un romanzo di Dickens…
Ora spiace dirlo nel momento in cui il coro dei detrattori del premier uscente - compresi quelli che per anni si sono coperti occhi e orecchie e adesso sono lì a strillare il loro "io l'avevo detto" - è così unanime, ma è stata un'illusione il solo pensare che Berlusconi non solo fosse in grado, ma soprattutto che avesse intenzione di fare il premier che sceglie e che decide.
E non è solo un problema suo. Se scorriamo il filo sotterraneo che segna la nostra storia - da Guicciardini a Longanesi? - si ha la conferma che la nostra classe dirigente non ha la polpa, e neppure la stoffa, per poter programmare strategicamente il futuro basandolo sulle competenze e scardinando le sacche di privilegi che attraversano tutte, ma davvero tutte, le fasce sociali: guadagno poco ma lavoro pure meno, spendo e spreco ma nessuno me ne chiede conto, evado le tasse che tanto non mi beccano mai, privatizzo gli utili e socializzo le perdite, non si muove foglia che il sindacato (o l'ordine professionale) non voglia, i treni fanno schifo ma il biglietto costa poco eccetera eccetera eccetera.
Alla fine, l'unica soluzione escogitata dalla nostra meravigliosa classe politica e dalla nostra ancor più meravigliosa società civile è sempre stata quella di delegare a un "Altro" immanente e onnisciente la soluzione dei problemi: prima la Dc diga anticomunista o il Pci bunker degli umiliati e offesi, poi il Craxi decisionista, infine il Berlusconi seduttore e demiurgo.
Sempre la solita, inesorabile e, alla fine, catastrofica scorciatoia dalla realtà effettuale. Ecco cosa sono stati questi ultimi diciassette anni: un'enorme, ammaliante e purtroppo anche a tratti pagliaccesca scorciatoia dal mondo reale. E adesso siamo qui, col cappello in mano ad aspettare che qualcun altro decida per noi. Altro che scippo della politica da parte dei poteri forti: questo è stato il suicidio della politica per manifesta inettitudine.
L'unica consolazione, anche stavolta aggrappandoci alla nostra storia, è che un paese come questo dà il meglio di sé nei momenti in cui sembra spacciato. Nel secondo dopoguerra, nei momenti più bui segnati dal terrorismo e durante la crisi economica-giudiziaria dei primi anni Novanta è andata proprio così: sembravamo finiti e invece, a ricordarlo oggi pare incredibile, ce l'abbiamo fatta.
Pensate anche ai mondiali di calcio - e il paragone non sembri irriverente -: sono stati vinti entrambi (quelli dell'epoca moderna) nei momenti più ignobili e vergognosi dell'intero movimento, fra manette, carabinieri, processi sommari nelle aule bunker, combine sudamericane, ultras sul piede di guerra e stampa complottarda e ululante al seguito. E' stato proprio quando tutto sembrava congiurare per il disastro che i nostri giocatori, da bamboccioni piagnucolosi e cascatori hanno saputo trasformarsi in professionisti così capaci, leali, orgogliosi e incrollabili da trasformare la disperazione in talento, fargli battere i padroni del vapore e portarsi a casa la più bella delle vittorie: quella di chi non avrebbe mai neppure sognato di poterci riuscire.
Poi, spietata, è tornata la melma, nel calcio come nella politica. E forse andrà così anche questa volta, perché noi italiani - di sinistra, di centro e di destra - non impariamo mai niente dai nostri errori. Ma mettere ogni tanto fuori la testa dalla sabbia è pur sempre un bel segno di speranza.
Diego Minonzio

© RIPRODUZIONE RISERVATA