La pena, il dubbio e una domanda

Rispetto è la parola che dovrebbe contenere la mente, ma anche il cuore e l'anima, di chi si affaccia, testimone non invitato, sulle rovine lasciate dalla tragedia che, il 17 agosto 2010, strappò alla vita Maria Soraya Annibale, la donna dal cui giovane corpo morente i medici del 118 riuscirono a far nascere una bambina: ricorderete senz'altro il suo nome, Marisol, così luminoso in una vicenda tanto buia.
Poiché nessuno può ostacolare la pietà o sostituirsi alla competenza del giudice e tantomeno arrogarsi il diritto di criticare le complesse trame divine, rispetto è quanto si deve anche a chi, dalla tragedia, uscì con il ruolo assegnato di responsabile: quel ragazzo di 18 anni che, da due mesi munito di patente, affrontò a velocità eccessiva una curva, finendo nella corsia di marcia contraria, là dove arrivava l'automobile guidata da Rosario Lunetta, compagno di Maria Soraya: seduti nell'abitacolo l'uno accanto all'altra, erano inconsapevoli di quanto stava per accadere.
Rispetto al quale ci si comanda sempre, perché a nessuno è dato di giudicare in base a equivoco buon senso o malcelata voglia di saperla lunga, e rispetto dunque anche nel giorno in cui - la notizia è di ieri - il giudice ha deciso che la condanna per il comportamento negligente del ragazzo sarà di due anni e sei mesi di reclusione e di tre anni di sospensione della patente. Rispetto che scongiurerà il pericolo di sputare altre, non richieste, sentenze, di alzare il dito con facile indignazione e di indicare soluzioni troppo emotive per non essere forcaiole. Rispetto che non esclude, però, la possibilità di porre qualche domanda.
Sotto un profilo tecnico, è una sentenza severa. L'auto andava a 85 all'ora - non a 200 - in un tratto con limite a 50; il giovane non aveva né bevuto né era sotto l'influsso di droghe: gli addetti ai lavori non avrebbero escluso una sentenza più lieve. Ma noi non siamo addetti ai lavori e, premesso il rispetto della legge e di chi la applica, non riusciamo a impedirci di ragionare sul concetto di processo e sul suo significato. Il dubbio - perché di semplice dubbio si tratta - non è se sarebbe stato "giusto" punire di più l'imputato, perché non è l'accanimento ciò che auspichiamo, nella certezza che, due anni, venti o cinquanta, la pena più dura al ragazzo la sta infliggendo, ogni giorno, il ricordo di quella irreparabile notte. Il dubbio è se il valore delle sentenze non stia anche nel modellare i comportamenti sociali, nell'alzare steccati e nell'annunciare, con carità ma anche con precisione, le conseguenze alle quali chi sbaglia dovrà far fronte. Un processo non è un contratto tra due parti in causa che, attraverso una sentenza, riparano al torto che una ha portato all'altra: è invece il rito nel quale, oltre a fare giustizia, la società ogni volta definisce e difende i limiti della libertà individuale, ovvero della libertà degli individui nei confronti degli altri individui.
In questo senso, è possibile chiedersi se due anni e sei mesi - condanna tecnicamente "pesante" - rappresentino l'opportuna risposta, sociale ancor prima che giudiziaria, al comportamento costato la vita a Maria Soraya. È una domanda, ripetiamo. E non una domanda retorica, ironica o tendenziosa. È solo una domanda: nuda e disarmata come sempre sono le domande generate dai dubbi più profondi.

Mario Schiani

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