Le imprese in rivolta
allarme per la Lega

Nonostante l'ottimismo di facciata non è un buon momento per il Carroccio. Neppure sulle piccole cose, visto che il Parlamento padano a Villa Bonin Maistrello a Vicenza per ora non riapre perché il proprietario, che dal 2008 non vedeva più riunioni, affitta gli "storici" saloni per battesimi e cresime. E neppure le sedi distaccate dei ministeri a Monza se la passano in maniera diversa: in sostanza non hanno mai aperto i battenti.
Non è un bel momento, perché la Lega Nord ha scelto di stare all'opposizione del governo di salvezza nazionale targato Mario Monti. Lo fa per capitalizzare i mugugni e le proteste, alte è prevedibile, che scoppieranno quando i provvedimenti per non dichiarare fallimento come Paese, saranno effettivi e tradotti per il cittadino in maggiori carichi fiscali.
Ma da qualche giorno, soprattutto dal Nordest spira il vento gelido che può far "ammalare" sul serio il partito del federalismo e, forse ancora, della secessione:  contro la Lega di lotta si sono ribellati gli imprenditori veneti, trovando voci  consenzienti anche in Lombardia. Cosa è accaduto: gente come Riello, ad esempio, non riesce a capire perché il Carroccio non abbia deciso di appoggiare e sostenere il tentativo di Monti, perché la Lega da partito di governo a tutto tondo - tanto da avere perfino il ministro degli Interni -, abbia deciso di valicare il Rubicone e sia tornato ad evocare addirittura la secessione, come conseguenza di una crisi finanziaria devastante.
Ma altri imprenditori sono andati al di là con la critica, ricordando quanto l'esecutivo Monti può fare per innovare e rinnovare, stavolta sì e definitivamente, un'Italia che rischia di essere in ritardo anche rispetto ai sussulti di modernità che arrivano dalle rivolte del Nord Africa.
La mossa del Senatur punta a ricompattare il partito, ormai in maggioranza volto verso Maroni, e a recuperare sia le frange estreme che in questi anni romani l'hanno abbandonato, sia a raccogliere gli inevitabili delusi che le «misure incisive» (per usare la sua definizione) di Monti lasceranno per strada.
Il mondo dell'impresa, che pure al Nord ha avuto - e forse ha ancora in parte - sentimenti di larga simpatia per il movimento, però oggi ha mandato un segnale preciso in via Bellerio che è anche un annuncio di frattura netta: non ci stiamo più, non possiamo più perdere il treno di una modernizzazione ineluttabile per la settima potenza industriale al mondo. Oggi da Confindustria in giù, si sta aprendo una sorta di vaso di Pandora e stanno uscendo dubbi e perplessità, se non delusione vera e propria, per quanto si poteva fare e non s è fatto nel passato recente.  E la Lega di tutte queste mancate realizzazioni è stata compartecipe se non, addirittura, fomentatrice. La riforma delle pensioni, solo per citare un esempio.
Però aveva una possibilità il Carroccio: come il Pdl poteva non mettersi di traverso rispetto al governo di Monti. Invece ha insistito sul ricorso al voto, mirando alle urne piuttosto che agli indici di Borsa e dei titoli di Stato. Oggi il mondo produttivo questo non lo perdona più, sa che - evocando una frase pronunciata da Sarkozy ieri e riferita all'Unione europea - «o se ne esce insieme o moriremo», come Paese, come Italia, Nord compreso. Nella Lega l'unico che sembra averlo capito è il sindaco di Verona Flavio Tosi, in odore di eresia. Ma il Senatur non lo ascolta, anzi minaccia di cacciarlo.
Umberto Montin

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