La politica, i tecnici e gli uomini nuovi

La crisi dei subprime e quella del debito sovrano sono sintomi di un cambiamento epocale. Di per sé non si tratta di problematiche finanziarie inedite. A fare la differenza è la repentinità e la vastità della loro manifestazione. Bisogna auspicare che su tale destabilizzazione i governi riflettano a fondo, regolandosi di conseguenza. In passato i cicli economici recessivi si sono accompagnati a guerre e dittature; saperli controllare è quindi cruciale.
Alcuni intellettuali, un po' in ritardo sulla profezia dei Maya, paventano un drammatico declino del capitalismo e professano la nazionalizzazione di tutte le banche. Posto che tanto un gufo quanto un vate appaiono al momento figure poco opportune per affrontare i problemi e posto che facciamo volentieri a meno di soluzioni sovietiche, tutti noi attendiamo l'avvento di qualche grande filosofo che illustri una convincente “terza via”. Nel frattempo conviene realizzare che la visione del mercato attraverso gli occhiali del XX secolo è come fare surf sull'acqua infestata dagli squali. Già, gli squali. Sono gli speculatori il problema? Sì, ma è come dire che la causa della slogatura è la presenza dell'articolazione. A un governo oculato dovrebbe interessare più il comportamento del sistema che della parte. Oggi più che mai il tutto trascende la somma delle parti: la globalizzazione è uscita dai discorsi astratti per diventare qualcosa di concreto, fino al punto che c'interroghiamo sui nostri risparmi.
Qual è dunque la colpa dei governi? Quella di occuparsi di politica; pare assurdo, ma qui intendiamo “solo di politica”. Un tempo l'arte di governare era egemone, ai vertici della discrezionalità amministrativa. Oggi ci sono poteri trasversali ch'essa non controlla e che la soverchiano in un batter d'occhio. Uno stato può tecnicamente permettersi di non pagare per tre anni un imprenditore, ma si mette a cuccia quando il debito è ingente e a riscuotere sono grandi banche internazionali. Di sovrano c'è solo l'inchino. Non è la rivalsa del piccolo creditore, è una sconfitta per tutti.
Chi addita il mercato come se fosse un'entità maligna non capisce che il mercato siamo anche noi, con il nostro lavoro, i nostri consumi, i nostri mutui. Uno stato può influire sul mercato, ma non è mai realmente al di sopra di esso, specie in un mondo globalizzato. Oggi i cicli economici diventano minacciosi in fretta, per dinamica propria, perché le vecchie regole finanziarie non vengono adeguatamente tradotte in un nuovo controllo internazionale. Ad esempio, in Europa con la moneta unica si ampliano gli spazi speculativi in assenza di una vera banca centrale.
La responsabilità impone allora competenze governative mai viste finora. Il termine “misure anti-crisi” è in questo senso fuorviante e lascia trapelare una sottovalutazione della crisi stessa. È invece necessario un vero cambiamento di paradigma negli esecutivi, con esperti di sistemi, team specialistici, non semplici consiglieri o tecnici condizionati da interessi elettorali. È un approccio tutto diverso.
Pretendere che la politica prevalga storicamente sui principi economici significa ribaltare i termini del problema. I governi non possono cancellare quello che non prevedono o non comprendono. E tutto questo vale anche per la tecnologia, i piani energetici, la logistica, il clima. È finito il tempo dei politici che si crogiolano nelle citazioni in latino e usano i consulenti con la stessa ottica con cui chiamano l'idraulico. Eppure, diciamocelo in ultimo, guai se le sorti delle nazioni restassero nelle mani dei tecnocrati. Il retaggio di Atene è una delle maggiori conquiste dell'umanità. È proprio per difenderlo che occorrono uomini nuovi.

Roberto Weitnauer

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