A parte alcune illuminate eccezioni, le testimonianze che si sono succedute in aula sembravano tratte da una sceneggiatura dei fratelli Cohen, con improbabili personaggi che - forti della scusa dei tanti anni trascorsi dai fatti oggetto del processo - ripetevano, in un noioso copione, i loro «non ricordo», «è passato troppo tempo, davvero non saprei», «la mia memoria, ormai... sa com'è, signor giudice».
Sì, il signor giudice sa com'è. E infatti dopo aver ripreso un sottufficiale di vecchia data della polizia locale, che a dispetto della divisa portata per anni non si è sentito in imbarazzo di fronte alle scientifiche lacune nei suoi ricordi, è arrivato ad ammonire ufficialmente un'ex candidata che, non contenta di aver chiesto - cinque anni or sono - una raccomandazione all'allora assessore Paolo Gatto e di aver preteso e ottenuto di conoscere in anticipo le tracce della prova scritta, ieri ha pensato di fornire il suo contributo alla giustizia trincerandosi dietro un: «Io questa cosa del concorso l'ho rimossa». Per fortuna la minaccia di un'imputazione per falsa testimonianza ha restituito una fetta di ricordi alla smemorata.
Una sfilata così numerosa di testimoni reticenti le aule del Tribunale cittadino non la vedeva da un pezzo. Resta il dubbio sulle reali motivazioni di un comportamento di massa simile: volontà di nascondere la verità o semplice vergogna di dover ammettere di essere stati disposti a giocare con carte truccate pur di vincere un concorso pubblico? Sciogliere il dilemma non aiuterebbe certo a rendere meno amaro il sapore indigesto della raccomandazione, della furberia, del sotterfugio che alberga in questa vicenda. E per fortuna la giornata ha anche regalato esempi illuminati, di testimoni ancora capaci di riconoscere nella verità una virtù e di divise in grado di distinguere tra quello che rende grande un Paese e ciò che invece lo macchia indelebilmente di luoghi comuni.
Paolo Moretti
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