È interessante come all'inizio si richiami la lezione di Herbert Marcuse per denunciare il mito del consumo. Una teso oggi assai diffusa suggerisce proprio di consumare sempre più, così da tenere in vita la "macchina" produttiva. È questa la proposta keynesiana e statalista, la quale spinge i governi a tassare affinché dispongano di somme da spendere e incita le banche centrali a emettere denaro in quantità per lo stesso motivo. L'idea che il consumo sia di per sé il motore della civiltà è un'idea profondamente sbagliata, che non riconosce in particolare le virtù del risparmio.
Anche quando insiste su un tema peculiarmente teologico come è quello della Grazia monsignor Coletti constata che certo non rimane grande spazio per Dio (e per la nostra stessa responsabilità) in una società sempre più amministrata in nome di una malintesa nozione di "solidarietà". D'altra parte, non è un caso se lo Stato sociale in Francia sia chiamato "Etat Providence", perché l'apparato politico-burocratico ha assunto quel ruolo che un tempo era affidato a Dio medesimo e a quanti erano pronti a cooperare al suo progetto.
Il testo sottolinea invece il nesso tra economia e libertà, e quindi anche tra economia e fraternità, da intendersi come autentica preoccupazione per l'altro e come impegno effettivo. Se nel secolo dello Stato, il Novecento, ogni spazio è stato occupato dai poteri pubblici e quasi più nulla è stato lasciato nelle mani della società civile (si pensi alla triste condizione delle scuole libere), è allora giunto il momento di voltare pagina: «non abbiamo imparato nulla dal secolo scorso, in cui sono maturate e si sono sviluppate tante verità scientifiche, eppure sono state vissute tremende esperienze di guerre, dittature, stermini d'interi popoli, violenze, e ingiustizie di gravità mai vista nella storia?».
L'aggressione alla proprietà, alla libertà di contratto e alle relazioni sociali di carattere volontario (bloccate da una regolazione asfissiante) ha minato non solo l'economia, ma l'intera vita sociale, lasciando sulla scena due attori: lo Stato e un individuo sempre più solo, abbandonato a sé, chiuso nel suo egoismo. Per questo il vescovo si domanda: «Cosa succede quando il rigore della giustizia distributiva e il principio dell'interesse personale, che pure hanno un senso e giocano un ruolo irrinunciabile, diventano l'unico criterio che presiede alle scelte, ai desideri e ai programmi di una persona e di una società?».
Le società responsabili, insomma, poggiano su un articolata rete di istituzioni volontarie e per tale ragione è urgente dare più spazio alla libertà e a tutto ciò che si sviluppa senza ricorrere alla coercizione. Solo in questo modo la generosità tornerà a fiorire, poiché la condizione del dono sono la libertà e la proprietà, mentre il progressivo esproprio spegne la sorgente stessa della generosità.
Non è insomma lo Stato, che deve farci liberi, come credono quanti confondono la libertà con la possibilità di fare qualunque cosa e di disporre di questo o quel bene. È il Creatore che ci ha fatto liberi, regalandoci la vita e chiamandoci a fare un buon uso dei suoi doni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA