I cristiani fanno molta memoria, in un mondo che, mediatamente, ne fa poca. È un luogo comune, infatti, lamentare la scarsa propensione da parte degli uomini di oggi a riandare al loro passato. Si ricorda poco. E si progetta ancora di meno. Si resta incollati al presente dal quale, comunque, si prendono più ansie che speranze. Anche così viene descritta la cosiddetta postmodernità degli anni più vicini a noi.
La Chiesa, invece, in questi giorni ricorda moltissimo. Ma non è un esercizio che va da sé. Anche nella Chiesa esistono i militanti a oltranza della memoria e esistono coloro che la vedono con sospetto o la disprezzano addirittura. Si può dire anzi che molte delle tensioni attuali della Chiesa passano attraverso quel contrasto. Di fronte al mondo che sembra scivolare lontano dalla Chiesa, molti credenti ricordano con nostalgia un mondo che invece sembrava cercarla. Il Concilio e la figura carismatica di papa Giovanni appaiono un paradiso perduto, per questi cultori delle grandi nostalgie. Ma ci sono altri credenti nei quali l'enfasi della memoria diventa ancora più radicale tanto che, in nome di quella memoria, criticano il Concilio stesso che avrebbe tradito precisamente una memoria ancora più antica, quella della Chiesa del latino e delle austerità ecclesiastiche.
In questo contrasto appare davvero esemplare la figura di papa Giovanni. Papa Giovanni era, in tutta evidenza, un uomo della tradizione. Ha condotto, lungo buona parte della sua vita, interminabili ricerche storiche sulla vita di san Carlo Borromeo, era legatissimo alle figure storiche della Chiesa. Anche i suoi gusti personali andavano verso una riesumazione di memorie rare o perdute. Nessuno ricordava più il camauro, quello strano copricapo usato da papa Giovanni e reso immortale dai ritratti di Manzù. Strano già nel nome. Eppure quel cultore di cose di altri tempi ha aperto il Concilio dell'"aggiornamento" della Chiesa.
Il fatto si è che la dinamica del ricordo, per il credente, non è soltanto ricordare fatti passati. Intanto i ricordi tipicamente cristiani hanno una base fragile. Al centro della fede cristiana c'è il "fate questo in memoria di me": la consegna che Gesù fa ai suoi amici la sera degli addii, nell'ultima cena. Ma quella memoria è affidata a due supporti fragilissimi: pane e vino, due "derrate alimentari", come qualcuno ha fatto notare, che sono corpo suo e sangue suo. Nulla di simile nei grandi contemporanei di Gesù che, per essere ricordati, si facevano costruire intere città (Gesù conosceva bene Tiberiade, la "città di Tiberio", imperatore di Roma), sontuosi monumenti o imperiture opere letterarie. "Ho costruito un monumento più duraturo del bronzo", si vanta Orazio nelle sue Odi. Solo che le due "derrate alimentari" della memoria cristiana "funzionano" soltanto se mangiate oggi da coloro che vogliono ricordare e solo se mangiate creano una fraternità nuova e diventano una "memoria per il futuro", come titolava un libro di Christian Duquoc di qualche anno fa.
Il cristiano, infatti, non è don Chisciotte che vive solo di ricordi di una cavalleria che non c'è più. Quando si trasporta tal quale un passato nel presente, infatti, si rende ridicolo il passato che non è più adatto all'oggi e irriconoscibile il presente, che non dispone più dei criteri per essere riconosciuto. La Chiesa diventa un immenso museo dove tutto è bello perché antico. E succede poi che, quando i credenti escono dal loro grandioso museo, abituati al loro mondo, non riescono più a vedere il mondo. Si rischia di scorgere infelici dove non ci sono, donne bellissime da difendere che spesso non sono bellissime e non sono da difendere e perfino i mulini a vento sono mostri contro cui andare a cozzare.
Lo sguardo del credente non è annebbiato se torna serenamente al suo passato per capire meglio il suo presente. Perché la nebbia dello sguardo va di pari passo con il sonno della memoria. E il sonno della memoria, diceva Goya, genera mostri.
Alberto Carrara
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