Se la città
diventa
un puzzle
da risolvere

Si fa presto, con i numeri. Nel butti lì uno, lo metti nel titolo e pensi di aver detto tutto. Ai lettori, invece, hai soltanto trasmesso un enigma, la sensazione che volevi dire qualcosa ma non sei riuscito a spiegarti.
I numeri, però, costituiscono un buon punto di partenza. Segnalano l'apertura di un fronte, illuminano la direzione verso la quale muoversi per cercare di capire il mondo che ci circonda. Nello specifico, il numero - anzi, la statistica - di oggi è questa: a Como è straniero un cittadino su sette. Sembra niente, sembra addirittura un dato da poco. Qualcuno, guardandosi intorno, potrebbe perfino stupirsi: «Appena uno su sette?» In realtà, come testimonia il servizio di Michele Sada che vi proponiamo nell'edizione de La Provincia del 3 novembre, dietro questa semplice constatazione statistica si nasconde un universo intero di trasformazioni e resistenze, speranze e delusioni, fortune e sfortune umane ed economiche. Il dato in oggetto rappresenta soltanto la sintesi estrema di un complesso intreccio di numeri e rilevazioni: quelli che permettono di disegnare la mappa relativa alla collocazione degli immigrati in città. E di capire, per conseguenza, come va cambiando la mappa sociale della città stessa e dove, per intenderci, sempre più il profumo del curry si mescolerà con quello della cassoeula e l'intreccio dei dialetti e delle lingue renderà più sonora e complicata la sintassi del quotidiano.
A metterla così, sembra un ritratto pieno di colore e ottimismo, come quei disegni che i bambini consegnano a scuola con gran spargimento di pastelli. Ovviamente, non è un ritratto somigliante. Non è questione di ottimismo o di pessimismo perché, inutile nasconderlo, rapide mutazioni sociali come quelle testimoniate da queste statistiche implicano sempre il montare di tensioni e difficoltà quando non di veri e propri conflitti. Il pensiero va a via Milano alta e alla denuncia, da parte dei suoi abitanti "indigeni", delle crescenti difficoltà di vivere in un'area in cui l'immigrazione, ma anche una certa disinvoltura residenziale, ha portato al nascere di pericoli da non sottovalutare. La statistica ci dice dunque che, in mancanza di vigilanza e di consapevolezza civica, altre "via Milano alta" potrebbero essere dietro l'angolo, magari nei quartieri più periferici o in zone dove l'occasione, i prezzi abbordabili e la mancanza di programmazione finiranno per creare terreno fertile. Usare la parola "ghetto" non è simpatico, ma sinonimi non sono dati. Aree come quelle in cui, almeno in parte, si è trasformata una sezione di via Milano rappresentano il tipo peggiore di integrazione: quella che integrazione non è. Si tratta invece di una vera e propria spallata sociale, dell'imposizione di un nuovo assetto abitativo come dato di fatto, realizzato ma mai progettato, assestato ma mai condiviso.
In questi casi, viene facile dire che l'integrazione va "gestita", alludendo a qualcosa di molto colto e tollerante, di ragionevole e posato. A pensarci bene, resta un'espressione il più delle volte lasciata in sospeso, una ricetta attraente ma senza ingredienti. Diciamo allora che l'integrazione va "vissuta", raccomandandosi sempre alla tolleranza e alla ragione, al rispetto reciproco e alla convivenza, ma anche, se necessario, all'ordine e alla vigilanza. "Uno su sette" sarà allora la formuletta mnemonica per ricordare che, oggi, i comaschi sono disponibili un po' in tutti colori e in tutte le culture, ma hanno un impegno comune: fare della città una singola entità vivibile e non una sorta di puzzle che, dopo qualche distratto tentativo di comporlo, si abbandona infine al suo frammentato destino.
Mario Schiani

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