All’Italia servono
riforme. Ma vere

Dopo aver assicurato ai partners europei l’impegno del governo italiano a rispettare il 3% di deficit, al suo rientro in Italia Matteo Renzi è tornato sull’argomento sostenendo la necessità di derogare al predetto vincolo che, per Bruxelles, costituisce una sorta di invalicabile “Maginot”.

Questo comportamento “binario” del nostro premier non servirà certo a renderci più credibili agli occhi dell’opinione pubblica tedesca che non ha mai amato questo modo, tipicamente italiano, di assumere impegni in terra straniera per poi

disattenderli in patria. La verità è che i tedeschi continuano a non fidarsi di noi e, probabilmente, ne hanno tutte le ragioni. L’immaginario collettivo del popolo tedesco è sempre stato abitato da una forte diffidenza nei confronti degli italiani da essi ritenuti troppo corrivi e superficiali, dunque inaffidabili. Non solo. In larghi strati della popolazione tedesca si sono radicati nel tempo forti pruriti revanscisti per le ragioni storiche che tutti conosciamo. La “Grande Scommessa” di Renzi è quella di rilanciare la nostra economia giovandosi di quella deroga a cui, in modo inequivocabile, sia la Merkel che Barroso hanno opposto un perentorio diniego. Piaccia o no, il Fiscal compact rappresenta un imperativo a cui tutti i paesi dell’Ue sono tenuti ad uniformarsi. Pertanto, ciascun paese è chiamato a ridurre il proprio debito nella misura di un ventesimo per la parte che supera il 60% del Pil. Per quanto concerne il nostro paese, poiché il debito pubblico ammonta al 133%, quel vincolo ci impone ogni anno una riduzione del nostro debito pari a 3,5 punti del Pil. Ne discende, dunque, un’amara verità: ci attende, ancora, un lungo periodo di “lacrime e sangue”. Matteo Renzi conta, in modo decisivo, sul semestre italiano di presidenza Ue per far valere le sue ragioni. La netta sensazione è che in lui ci sia la chiara consapevolezza che le misure finora annunciate non possano, da sole, essere sufficienti. Il “Jobs act” è una scommessa gravida di incognite, anche dal punto di vista dell’impatto sui conti pubblici. La stessa “spending review” di Cottarelli rischia di diventare l’ennesima relazione scritta sull’acqua che perfino il governo, dopo averla pomposamente annunciata, tende ora a non prendere troppo sul serio. A parte la spiccata abilità comunicativa del premier, non si vedono all’orizzonte quelle riforme strutturali in grado di ridare fiato ad un mercato che, tranne qualche comparto, continua a restare asfittico. La battaglia contro i privilegi della Casta non può bastare. Una vera cultura riformista deve proporsi, soprattutto, di abbattere quel grumo di privilegi che si sono cristallizzati nell’universo produttivo delle imprese, delle professioni, del pubblico impiego. Resta forte il dubbio che, come il berlusconismo, anche il renzismo sia una grande operazione di cosmesi destinata a non scalfire gli equilibri sociali di un paese in cui le disuguaglianze si stanno pericolosamente moltiplicando. Stia attento, il premier, a fare il “fenomeno”, perché la rabbia che sta montando nel paese merita di essere presa sul serio, con grande umiltà e realismo. Realismo, non cinismo.

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