Cambia il mondo
ma non Campione

Bisogna riavvolgere il nastro fino a trent’anni fa, quando la Panda del Comune di Campione viaggiava con la selleria in pelle allestita appositamente da un carrozziere di fiducia perché la Fiat, per la sua utilitaria, un allestimento così lussuoso proprio non lo produceva né concepiva. Per capire il buco nero in cui si è infilato il casinò con la dichiarazione di fallimento serve rendersi conto che, da allora ad oggi, è cambiato il mondo ma non è cambiato il Comune di Campione: ancora a giugno 2017, ultimo dato disponibile, lo stipendio medio di un dipendente comunale incideva per 10.470 euro al mese sulle tasche del contribuente. Una cifra almeno tre volte superiore a quella dei colleghi del resto d’Italia. E in un paese di 1800 abitanti, per i quali la pianta organica prevede di norma 18 persone, di dipendenti comunali ce ne sono ancora 102. Fra loro 25 vigili, per un reticolo stradale di 2,7 kilometri quadrati. Fra i vigili, anche qualcuno che si è sin qui potuto permettere le Porsche.

Ê cambiato il mondo ed è cambiato in particolar modo quello dell’azzardo, passato in pochi anni dal monopolio esclusivo di quattro città in tutta Italia alla liberalizzazione selvaggia fino al bar sotto casa, anzi fino allo smartphone in camera da letto. Ma nell’enclave troppa gente, per troppi anni, ha finto di non accorgersene. Tentativi di frenare le macchine del Titanic lanciato contro l’iceberg, a dire il vero, ce ne sono stati. Da almeno sei anni la società di gestione, alle prese con una struttura pantagruelica non solo nel palazzo, gonfiata anche di raccomandati della politica comasca, ha avviato la trafila fatta di esuberi, esodi incentivati, prepensionamenti, contratti di solidarietà. Non siamo assolutamente arrivati agli stipendi di un metalmeccanico, certo, ma qualcosa è cambiato.

Un risanamento ancora abbozzato che avrebbe probabilmente richiesto nuovi, consistenti tagli e che non poteva prescindere da una revisione totale degli accordi con il Comune, padre-padrone di un giacimento di liquidità da trecentomila franchi al giorno. La casa da gioco sul lago di Lugano deve versargli il 40% dei ricavi, 34 milioni di euro, cioè più del doppio di quanto non facciano Venezia, Sanremo e San Vincent. Un peso ormai insostenibile.

Non è un caso che il Consiglio comunale, in queste ultime settimane, si fosse alla fine deciso a ridimensionare drasticamente il contributo richiesto al Casinò, sebbene ciò avrebbe significato, finalmente, tagli drastici innanzitutto alle pretese dei dipendenti, molti dei quali recalcitranti fino all’ultimo, a suon di ricorsi davanti al giudice, ad accettare riduzioni di stipendio pari solo al dieci per cento.

Il no del commissario prefettizio alla riduzione dei versamenti dal Casinò al Comune e il no dei curatori fallimentari all’esercizio provvisorio della casa da gioco hanno fatto precipitare l’enclave in una situazione intricatissima, con 500 persone che non sanno più se e quando rivedranno lo stipendio, ormai lauto soltanto nei sogni.

Una cosa è certa: con le leggi attualmente in vigore, il Casinò non può riaprire. Il faro acceso dal giudice fallimentare e dalla Procura sugli sprechi di questi anni in riva al Ceresio ha almeno un pregio, quello di impedire di fatto che la politica romana e non solo, a cui Campione ha sempre fatto ricorso nei momenti di difficoltà, ripiani i conti del paese più strano d’Italia a spese degli altri contribuenti. Eppure, è soltanto la politica che può risolvere quella che resta una delle crisi imprenditoriali più pesanti degli ultimi anni. Lo spiraglio sembra uno solo, quello del decreto-legge che cancelli i divieti a riaprire i tavoli verdi affidando la proprietà di un nuovo Casinò a soggetti diversi dal Comune, impedito a detenerla. Una legge che, si spera, finalmente cancelli anche i colossali sperperi dell’ultimo mezzo secolo di vita dell’enclave.

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