Como e Cantù vendute?
Qui passa lo straniero

Ci apprestiamo a vivere una settimana che potrebbe essere storica per lo sport comasco. Como e Cantù vendute nella stessa settimana. A proprietà straniere. Ve l’immaginate? Salvini, quello di “prima gli italiani”, ci girerebbe il remake del film “La settimana più brutta della mia vita”. Ma certo, se accedesse, sarebbe una contemporaneità curiosa ed eclatante al tempo stesso. Il Como sulla via di americani (o indonesiani; o russi, perché, occhio, sono spuntati anche loro); Cantù sulla strada anche lei degli Usa (anche se c’era una possibilità svizzera). Tanto per dire dei tempi: il socio italo-americano che possiede la metà del Como, è arrivato al dunque del suo progetto che vuole estromettere il socio sardo Roberto Felleca, vendere tutto il pacchetto a un gruppo straniero, e restare poi con una quota di minoranza. Non ci fosse stata Como-Mantova, la superpartita di oggi, forse avrebbero anticipato i tempi. Ma tutto fa intendere che in settimana potrebbero essere fatti i passi concreti.

Cantù, se mai Gerasimenko metterà d’accordo i suoi pensieri del lunedì con quelli del martedì, cercherà di chiudere (qualcuno dice addirittura entro domani) per evitare che la benzina finisca. Como e Cantù (peraltro già straniera da quattro anni) in mani forestiere. La legge del contrappasso, per un territorio (specie Como) dove bastava essere di Lodi per essere definito forestiero. Epperò, dopo la tragica fine dell’esperienza Porro, il famoso motto «Il Como ai comaschi» è finito in solaio assieme ai ferrivecchi.

Se mai avverrà, la cessione in contemporanea dei due più importanti club a mani straniere, è una fotografia. Del territorio e del Paese. Sempre più incapace economicamente di sostenere certi sogni. Per anni si è andati avanti con l’utopia di avere una proprietà del territorio che difendesse storia, sentimenti e tradizione. In realtà le due società, fateci caso, vanno a braccetto (seppure con sfumature diverse) anche sotto questo aspetto.

Pensateci: due proprietà davvero autoctone, storicamente e realmente locali come Mario Beretta da una parte e Aldo allievi dall’altra. Poi, due proprietà fintamente locali, se così si può dire. Benito Gattei e Francesco Corrado, certamente locali di adozione, ma che trovavano (l’entusiasmo emiliano il primo, e l’orgogliosa nobiltà piemontese il secondo) nelle proprie origini la benzina per affrontare le rispettive avventure. E poi tanti “forestieri”, tra cui due imprenditori simili nella arroganza imprenditoriale come Preziosi e Polti. In mezzo, Angiuoni troppo napoletano per essere vero (lariano), il Di Bari che del comasco aveva solo i silenzi, e la Cremascoli per Cantù, molto milanese. E persino due marziani (Essien e Gerasimenko) che (seppure in tempi diversi) hanno fatto quello che le proprietà straniere fanno quando si stancano del giochino: mollare tutto, fregandosene bellamente di coppe, trofei, storia, tifosi, amore.

Insomma, per dire che il territorio, sul tema, ha spesso messo la testa sotto la sabbia. Ora, però, è diverso: la contemporanea cessione straniera è un megafono su una situazione. E, badate, non possiamo nemmeno essere tristi. A Como serve un progetto più profondo, che ristabilisca il sentimento di fiducia con la gente su altre basi. A Cantù, c’è poco da fare gli schizzinosi: o si chiude con gli americani oppure... si chiude e basta. Siamo nel mondo globale, stare a guardare la carta di identità è da dinosauri. Però, come si è visto a Pavia, a Palermo, a Reggio Emilia, c’è sempre il rischio che, come fanno i ricchi annoiati con l’hobby di turno, a un certo punto si stacchi la spina. Speriamo di no. Ci conviene vivere questo momento senza pregiudizi. Con gioia e braccia aperte. Ma, magari, nemmeno senza illusioni.

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